Nella Repubblica, ma anche nel Fedro, Platone identifica il Bello nella sua massima e paradigmatica espressione con il Bene in sé, vale a dire con l'Assoluto.

Lo stesso percorso viene seguito da Plotino, nel celeberrimo trattato sul Bello intellegibile. Per entrambi i filosofi, vertici metafisici del pensiero antico, anzi, del pensiero in quanto tale, il bello al quale gli uomini possono attingere in questa vita, per quanto kalon kai agathon, è destinato ad essere imitazione o emanazione del Bene in sé. Un anelito quindi, mai una conquista definitiva.

Così come la contemplazione degli astri e delle figure geometriche, la musica era parte integrante del progetto di paideia platonica. Bene, se c'è una registrazione che il filosofo di Atene avrebbe inserito in ogni suo corso, atta ad elevare ed equilibrare le anime dei discenti, questa avrebbe avuto il nome di "Mozarto, Bohm, Pollini: Concerti per panoforte n. 23 e 19".
Se non esiste la perfezione in musica, questo disco ne rappresenta la maggiore approssimazione possibile. Intanto sgombriamo il campo da un'equivoco, un luogo comune alimentato dalla semplice ignoranza (o dall'antipatia derivante dalla sua "adesione" al nazismo), che vuole Bohm direttore minore, pedante, privo di nerbo e di carisma.

Un direttore che adeguava al suo standard, fatto di professionale mediocrità, qualsivoglia partitura si trovasse ad approcciare. Nulla di più lontano dal vero. A parte il suo Strauss che, vista l'assidua frequentazione personale, oltre che discografica, è inarrivabile, è in Mozart che il direttore austriaco riesce ad esprimere una cifra stilistica che non può essere messa in discussione. E poi, il solo fatto di aver imposto nel repertorio un'opera considerata minore come "Così fan tutte", gli fa meritare un sincero applauso.
Alla metà degli anni '70 il vecchio direttore, alla guida dell'incredibile Filarmonica di Vienna, incontra il giovane Pollini. Occasione per il rendez-vous è la registrazione di due tardi concerti per pianoforte di Amedeus: il n. 19 in fa maggiore e il n. 23 in la maggiore (k459 e k488 secondo la catalogazione di von Kochel).

Il primo fu composto dal Mozart nel 1784, un anno descisamente fecondo, visto che produsse ben 6 dei suoi 17 concerti. In particolare qui è il finale Allegro Assai, non solo per la vorticosa coda in forma di rondò, esercizio di virtuosismo pianistico, ma soprattutto per l'utilizzo del contrappunto che va a creare un mirabile equilibrio con lo stile di opera buffa che caratterizza il movimento.
Ancor più notevole, se possibile, è il k488. Mozart, ormai incline a scrivere per sé, per la Musica, piuttosto che per il grande pubblico, produce quella che a mio modesto avviso è la pagina inarrivata e inarrivabile del concertismo pianistico.
Non sto qui a dilungarmi nel dettaglio della partitura: l'unca cosa da fare in questi casi è creare il silenzio assoluto, uditivo e mentale, e spingere il tasto play del lettore cd. L'Adagio centrale vale da solo tutta la musica del '900 (non scherzo, lo penso davvero). Bohm e Pollini, dal canto loro, approcciano questi 55 minuti complessivi di musica in maniera sbalorditiva: mai suono fu più nitido, pulito. Nessuna sottolineatura dei lati comici o burleschi della partitura, tentazione alla quali altri non resistettero. Emergono piuttosto gli aspetti più oscuri e problematici.

Non è sempre un ascolto gioioso, liberatorio: è dolente, profondo. A volte commovente. È quell'anelito che ci fa guardare al Bello senza mai riuscire a possederlo del tutto. Ma che non ci fa stancare di provare e riprovare. La condizione umana.

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