Questa sera di inizio primavera direi che butta abbastanza male. Abbastanza, beninteso, mica poi più di tanto. Un po' che piove, un po' che ci ho le palle in giostra per il lavoro, un po' che devo rinnovare la patente e non ho nessuna voglia di andare da solo a prendere un cazzo di appuntamento da un cazzo di collega oculista che dirà che sono diventato miope perché negli ultimi anni mi sono fatto troppe seghe. E magari ci avrebbe anche ragione. Perché, in fondo:

"L'uomo non resta a lungo onesto quando è solo, andiamo!"

E a restare soli in una sera così ti ritrovi a sfogliare, anzi, a sniffare, le pagine del "Viaggio al Termine della Notte" di Louis-Ferdinand Céline. E ad ascoltare, lungamente, languidamente, il Requiem di Mozart. E' una vecchia edizione di Karl Böhm coi Wiener, questa. Mi manca un casino, a me, il vecchio Karl Böhm. Mi manca il suo approccio lento, saporoso, ragionato, alla musica mozartiana. Un approccio dove gli istanti si dilatano, a sfiorare l'eterno. Come nei fagotti e negli archi che attaccano, corrucciati e tenebrosi, il "Requiem Aeternam". E i clarinetti, quei clarinetti, che baluginano sinistri nell'incedere opprimente, come un fuoco soffocato, dell'orchestra. Un procedere a tentoni nella galaverna brumosa e decadente del re minore, che solo improvvisamente si riapre, si rischiara, così, d'incanto, nell'Introitus. In quel breve e commovente solo da cui emerge, limpida e sicura, la voce del soprano. Un solo rilucente di un tenue tepore come del primo sole primaverile. Quel sole che non è ancora arrivato ma che sai che arriverà. Che deve arrivare, anzi. La voce del soprano, la splendida Edith Mathis, che intona limpida come una donna innamorata la sua offerta, il suo donarsi: "Te decet hymnus, Deus, in Sion".

Già. A Te spetta l'inno, Dio. Ma a noi, poveri uomini in terra, che cosa cazzo spetta?

"E, per conto mio, a furia di prendere e lasciare sogni, avevo la coscienza in balìa delle correnti d'aria, tutta escoriazioni e screpolature, rovinata da far spavento"

Mah, riflettiamoci un po' su, va. Il buon Mozart in fondo aveva paura di morire. E chi non ne avrebbe del resto? Lo si capisce dallo squassante "Dies Irae", un terremoto della coscienza, ora oscillatorio, ora sussultorio, dove lo spirito si sgretola improvviso, l'anima si polverizza in una sorta di brividare orgasmico, "solvet seclum in favilla", e a testimonio chiama pure "David cum Sibilla". Dura manco due minuti, penso, questo "Dies Irae". Due minuti che sembrano così eterni che creano, per poi incenerirlo senza un perché, un mondo.

"E' forse di paura che il più delle volte si ha bisogno per cavarsi d'impiccio dalla vita".

E io ce l'ho, la paura di morire, come Mozart? A ventott'anni ho già alle spalle due tentativi di farla finita. Ma non sono un eroe, io, non sono né Kurt Cobain, né Ian Curtis. E, cosa soprattutto più importante, quella che veramente salva, ho l'Amore. Ho il mio particolarissimo, sensibile, fragile, vulnerabile, acceso, tenero ed ardente "modus amandi". Perché:

"E' più difficile rinunciare all'amore che alla vita. Si passa il tempo ad uccidere o ad adorare, a 'sto mondo, tutt'e due insieme. "Ti odio! Ti adoro!"

A volte mi sento solo, senza dubbio. Divento rachitico. Mi incisto. Sto come d'autunno sugli alberi una foglia, combattendo nella battaglia della vita, per la mia, di vita. E a volte anch'io ne ho, di paura, eccome. "Quid sum miser tum dicturus? Quem patronus rogaturus?" intona tremante il soprano nel finale del "Tuba Mirum". Chi chiamerò ad aiutarmi? Chi? A volte nel letto, da solo, tasto la mia solitudine alla ricerca di una mano, una mano che ancora non c'è.

"I tramonti di quell'inferno africano si rivelavano straordinari. Non te li toglieva nessuno. Ogni volta tragici come mostruosi assassini del sole. Un immenso bluff. Soltanto che c'era troppo d'ammirare per un uomo solo"

E a volte il tramonto è davvero troppo d'ammirare per un uomo solo. Tanto che alla fine l'uomo solo si rompe le palle, e il tramonto non lo guarda neppure più. Spegne la luce. Va a letto alle nove, "prostrato dalla formidabile rassegnazione" della solitudine, che ti porta a considerare il mondo "come una specie di Luna". Mica serve a tanto il fatto che sei un medico, che sei tu che dovresti pensare ad aiutare le altre di persone, mica gli altri a te.

E poi sei un grande, ti dicono, un'anima rara. Sensibile e profumata come un bocciolo di fiore.

"Ci potevi pisciar sopra, a quei fiori là, che si bevevano tutto! D'altronde i fiori sono come gli uomini... E più sono grandi più son ciula!"

Delle volte ti senti così. Nudo, vulnerabile. E allora ti avvolgi a crisalide come nel tessuto contrappuntistico del "Recordare", in quel costante tema dell'uomo e della donna, così, di fronte, nell'intarsio delle voci, basso e contralto, tenore e soprano, a riprendersi, a richiamarsi, "tantor labor not sit cassus". Sei lì, e tremi, grossolanamente, come un albero scosso per far cadere i frutti. Ti rispecchi nella rabbia sublimata del "Confutatis", o nel crescendo oscuramente equoreo del "Lacrimosa". Stai annegando, in quella lacrima che non vuol venir fuori. E nel "Lacrimosa", lo sai, annega la vita di Mozart. All'ottava battuta, su quel "Judicandus homo reus".

Reo di cosa, poi? Di non sapere bastare a se stessi?

"Stronzo! mi dicevo allora. In verità sei uno senza risorse!"

In realtà, se davvero ognuno di noi bastasse a se stesso, se fosse felice con lui o con lei, così, nudamente, così com'è, mica ci sarebbe bisogno di pregare. Non ci sarebbe la famiglia. Non ci sarebbe la società. Pregare poi è chiedere aiuto, certo, ma è anche esprimere amore. Fuggire dalla propria solitudine, da se stessi e dalla propria miseria. Come nel fugato del "Domine Jesu Christe", con le sue voci a rincorrersi, come in un gioco di specchi, di riflessi, e di rimandi: "Libera eas de ore leonis, ne absorbeat eas tartarus, ne cadant in obscurum".

Bisogna viverla, questa vita, in fondo. Viverla e basta. Inutile pensarci tanto. Perché

"Filosofeggiare non è che un altro modo di aver paura".

Respiro il silenzio fra un brano e l'altro.

Il pensiero si accartoccia ancora un po' su stesso, nelle ampie circonvoluzione dell'"Agnus Dei". Ampie spire che oscillano nell'anima, piuma che ondeggia verso il pavimento, fra la polvere. Fino alla Communio. Del mio amore per lei, e con me stesso.

"Lux aeterna luceat eis"

Basta, non so se c'è lei, se ci sarà. Ma l'amore, il mio, quello c'è. Per Lei, per Me. E questo mi basta.

"Allora di colpo tutto diventa semplice, divinamente, senza dubbio, tutto quel che era così complicato un momento prima... Tutto si trasforma e il mondo paurosamente ostile si mette di colpo a rotolare ai tuoi piedi come una palla sorniona, docile e vellutata"

Nota: Tutte le citazioni sono tratte da Louis-Ferdinand Céline, "Viaggio al Termine della Notte", traduzione di Ernesto Ferrero, Corbaccio, Milano.

Carico i commenti... con calma