Winton Marsalis è perseguitato, fin dagli esordi negli anni ‘80 con il movimento dei "Young Lions", dalla maledizione del primo della classe. Pubblici elogi, molteplici riconoscimenti e premi per la sua tecnica e il suo stile di eccelso trombettista jazz, ma poco affetto per lui tra gli addetti ai lavori, forse anche per il suo essere impeccabile e irreprensibile (anche nella vita, ha evitato i classici eccessi che hanno abbreviato la vita di tanti, troppi, grandi jazzisti). Negli ultimi tempi, soprattutto da parte di una certa critica, gli è sovente stata riservata una tiepida accoglienza mista ad una malcelata antipatia, con recensioni molto severe, pronte ad evidenziare presunta freddezza, eccessivo mainstream e formalismo neoconservatore, accuse divenute una specie di luogo comune quando si parla della sua musica.
Intendiamoci. Non è che sia tutto campato in aria. In alcuni album un eccessivo compiacimento e una ricercata, a volte esasperata, perfezione formale hanno effettivamente un po' nociuto. Ma parliamo pur sempre di un fuoriclasse, di un artista esemplare, anche per il suo impegno civico e la meritoria opera di educazione al jazz, in particolare tra le fasce più deboli della gioventù statunitense, non solo di colore. Tanta acrimonia è quindi per me ingiustificata ed ingenerosa. Vedere poi uno dei suoi ultimi lavori (2006), a mio parere tra le cose migliori da lui realizzate, dalle nostre parti bistrattato se non ignorato (basta farsi un giro sul web per rendersene conto), mi è dispiaciuto, anche perché temo che alcuni dei giudizi su "From The Plantation To The Penitentiary", titolo estremamente significativo, siano frutto di una certa qual prevenzione. Infatti, colui che viene indicato come il paladino della neoconservazione in ambito jazz, nei sette brani dell'album compie non poche contaminazioni, fondendo il suona della sua scintillante tromba, frutto tanto di puro talento quanto di duro studio e applicazione, con lo swing, con ritmi caraibici, con la canonica soul-ballad; in definitiva, non saremo certamente in territorio sperimentale, me è un disco per nulla "imbalsamato", come qualcuno vorrebbe far credere, né involuto in sterili "esercizi di stile", come pure si legge da qualche parte. Anzi, vivacità, capacità di fascinazione, comunicativa caratterizzano l'album dal punto di vista musicale, in particolare i brani dove è presente la magnifica voce di Jennifer Sanon. A questi positivi elementi bisogna aggiungere anche i testi, quasi tutti "impegnati", nei quali vengono affrontati importanti tematiche sociali, con considerazioni acute e condivisibili. In particolare nella title track, interpretata da Jennifer superbamente, Winton esprime in modo duro e diretto quello che egli pensa dell'attuale situazione di parte degli afroamericani negli USA: "dalla piantagione al penitenziario" è il lungo e nient'affatto virtuoso percorso che il nostro ha visto compiere a troppa della sua gente per antiche responsabilità politiche e sociali certamente, ma anche per l'assuefazione delle giovani generazioni, ce l'ha anche con i rappers, finti combattenti, di fatto ingranaggi di un sistema che tiene la maggior parte dei neri in un limbo molto poco dorato, reso più sopportabile dalla vana speranza di poter "svoltare" come il "fratello" che gioca a basket o il 50cc di turno ("From the Plantation to the Penitentiary / From the yassuh boss to the ghetto minstrelsy / In the heart of freedom ... in chains / In the heart of freedom ... insane... From the work long days / To the dope and drinking craze / From the stock in slaves / To the booming prison trade"). Con "Find Me", invece, siamo nelle desolate terre delle sofferenze sentimentali, musicalmente una moderna habanera, danza cubana simile al tango, con la duttile e sensuale voce di Jennifer a rendere come meglio non si potrebbe le tante tonalità di un cuore in affanno e il quintetto di Marsalis a supportare da par suo: poco più di nove minuti che sembrano troppo brevi. "Doin' (Y)our Thing" è una vera apoteosi con il quintetto, meritano una citazione il pianista Dan Nimmer e il bassista Carlos Enriquez: atmosfere più minimaliste nella prima parte, per poi passare a sonorità più swinganti che si confondono con il vaudeville, eh sì, la natia New Orleans, e la cumbia. C'è anche la canonica ballad, "Love and Broken Hearts", una specie di macchina del tempo che ti riporta a quei fumosi e malfamati locali dove il jazz ha edificato almeno uno dei suoi pilastri. Un'accattivante commistione di fast and slow, c'è anche un spruzzata di Charleston e Cha-Cha, rafforza l'ironica filippica di "Supercapitalism" contro lo sfrenato consumismo. L'ultimo brano "Where Y'All At?", urban jazz+style spoken word +old motown, è quello nel quale in modo più esplicito e, dal mio punto di vista, sacrosanto Wynton accusa le giovani generazioni black, cercando di scuoterle dalla loro apatia, autolesionismo e mancanza di ideali, additando come fasullo e controproducente il modello di vita dei rappers.
"From The Plantation To The Penitantiary" è un più che valido argomento per chi, come il sottoscritto, ha sempre considerato Wynton Marsalis una stella di prima grandezza nel firmamento del jazz ed anche un'opportunità per (ri)scoprire, oltre che il valente musicista, un uomo dotato di idee chiare e coraggiose, a cui non interessa risultare simpatico ai "fratelli" che hanno venduto l'anima.
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