Mi perdonino gli estimatori di vecchia data del buon Malefic se mi permetto, io che ne ho fatto la conoscenza in tempi recenti, di recensire questo album, indubbiamente da annoverare fra i capisaldi della storia recente del black metal.
Non so come Malefic abbia lavorato prima e dopo questo "The Funeral of Being", né sono in grado di tracciare un paragone fra costui e gli altri santi numi del genere, di cui ho una conoscenza tutto sommato approssimativa. Quello che mi sento di affermare è che questa opera, probabilmente superata da lavori di altri o da altri lavori di Xasthur stesso, anche se presa isolatamente, anche se esaminata senza considerare il contesto di riferimento, ha un suo perché.
"The Funeral of Being" ha un suo perché: un perché che trascende il black metal, l'universo metal stesso.
Abbandonai il black metal sul finire degli anni novanta, perplesso dalle scelte stilistiche in voga all'epoca, scelte che portarono al progressivo snaturarsi dello spirito che aveva animato il genere nella prima metà del decennio (chi approdò al fantastico mondo dei vampirelli; chi regredì alle efferatezze degli atavici padri Venom, Bathory e Celtic Frost, per non parlare di chi si è messo a ripescare i Motorhead; chi, con convinzione o meno, uscì direttamente fuori dal genere). Abbandonai così il black metal come i saggi sorci abbandonano la nave ai primi segni di cedimento strutturale, ma tutto sommato lo lasciai con il buon sapore in bocca di lavori come "Nattens Madrigal" e "Filosofem", due lavori che, visti con gli occhi di oggi, assumono un nitido valore simbolico.
Da un lato, gli Ulver, riprendendo con ispirazione quanto già detto anni prima dai Darkthrone dell'insuperabile "Transilvanian Hunger", dimostrarono che un certo standard di black metal aveva raggiunto la saturazione definitiva. Parlo di quel black metal archetipico che incarnava la sua forma più pura ed incontaminata tendendo all'assoluto (la velocità che smaterializza la fisicità dell'aggressione, la sintesi melodica portata all'eccesso, i suoni confusi e sfrigolanti che riducono il tutto ad un ronzio impercettibile). Dall'altro, l'ultimo tomo elettrico vergato Burzum (quel "Filosofem" che a mio parere costituisce uno degli album più significativi del '900) rappresentò la possibilità di un superamento di quel paradigma perpetrando l'allontanamento dal mondo materiale non più attraverso una fuga verso le stelle, bensì attraverso l'introversione, mediante un tuffo disperato negli abissi della propria (in)coscienza.
Il black metal che ci propose all'epoca il buon Grishnackh fu un vero atto d'individualismo (nemmeno troppo consapevole a ben vedere), un black metal imploso, talmente personale, spinto in profondità da rinnegare i principi cardine che reggono il metal stesso: la velocità si stemperò nel passo cadenzato di una desolante drum-machine (ma sì, che senso ha spomparsi alla batteria!); la chirurgia, la rocciosità, la potenza dei riff naufragarono nello sfrigolare inconcludente di note impastate ed impalpabili; l'urlo di odio e blasfemia si affievolì in un sommesso gracchiare che sembrava provenire dai recessi più oscuri dell'anima. Una dimensione eterea, se volete spirituale, ma inquietantemente monumentale, sembrò scalzare la fisicità di un genere pragmatico, concreto, pratico come il metal. Grishnackh, gossip a parte, dimostrò di saper trascendere il genere, e la sua opera di decostruzione è paragonabile, per certi versi, al superamento degli stilemi classici del metal estremo compiuto, da ben altri presupposti, attraverso il collasso sonico di quelle band oggi identificate sotto la bandiera del post-hardcore. Un po' quello che fecero gli Slint per (o contro) il rock.
"Filosofem", e la storia l'ha dimostrato, si è rivelato essere qualcosa di autenticamente post, nella forma e nella sostanza, oltre tutte le etichette e tutti i criteri di classificazione adottabili. La musiva ivi contenuta è materia emotiva allo stato puro, un flusso sonoro che all'epoca sembrò costituire, nel particolare, l'espressione massima di una disgregazione emotiva al suo stato terminale, e, nel generale, il capolinea ultimo di un intero filone musicale che possiamo definire, più ampiamente e senza paraocchi, musica del malessere: una tradizione vecchia quanto l'uomo, che, nella storia recente, parte dalle nevrosi urbane dei Velvet Underground, per giungere ai giorni nostri incarnandosi di volta in volta in forme sempre diverse ed emotivamente sconcertanti, dai martelli pneumatici degli Einsturzende Neubauten alle deflagrazioni industriali degli Swans. E così via.
E' stato bello, dal mio punto di vista, affacciarmi nuovamente sul panorama black metal odierno e scoprire che nel terzo millennio la dottrina burzumiana è stata accolta, metabolizzata e così ben reinterpretata dalle nuove leve. L'eccezione, il guizzo è divenuto regola e forme, e fra tutti i discepoli, dagli Shining ai Silencer, passando dai più recenti Leviathan e Nortt (più spostati sul versante del funeral doom, a dir la verità), Xasthur è a mio parere l'immagine più vivida e sincera di questo movimento ribattezzato dagli addetti ai lavori con l'etichetta depressive black metal.
Etichetta ambigua ma pur sempre un'etichetta. E' la sostanza che conta. E questo perché quando ascolto "The Funeral of Being" chiudo gli occhi e mi ritrovo in corridoi oscuri, dalle pareti impalpabili, macchiati di sangue e catrame, mozzanti il respiro per la polvere e le ragnatele e la pesantezza dell'essere (con buona pace di Emil Kundera). Corridoi della mente, corridoi dell'anima, immagini che prendono forma attraverso gli echi e i riverberi delle note tremule e dissonanti di una chitarra talmente marcia da liquefarsi e trasformasi in poltiglia, un'insana e fangosa psichedelia dagli spiccati risvolti esistenziali capace di traghettare l'inconscio verso lidi ignoti e pericolosi, una sessione di ipnosi involontaria volta all'evocazione della peggio merda incancrenita nei nostri polmoni e nella nostra anima.
Un arto viscido e maleodorante che ci abbraccia e conduce altrove, in stanze buie e prive di speranza, costellate di pozze sudice e sgocciolanti stalattiti che si raffrontano in un macabro balletto di sentimenti (negativi).
Il grido di Malefic è lo strazio di una cornacchia sgonfia di speranza che logorata dalle fiamme si getta nella melma per estinguerle. E se l'immagine vi appare stupida, parole migliori non riesco a scovare per evocare la sensazione di un fuoco insopportabile e schifoso che brucia dentro, al di là di ed oltre una spessa coltre di fango che imprigiona e tarpa le ali, impedisce nei movimenti, arresta e circoscrive l'ultimo barlume di vita e speranza destinato a spegnersi nel buio e nel niente. Pareti della mente, pareti dell'anima.
Il passo che compie Xasthur, nanetto nero sulle spalle del gigante e bitorzoluto Burzum, è quello di destrutturare ulteriormente le macerie che "Filosofem" aveva lasciato dietro sé: la forma canzone non dimora da queste parti, evidentemente, e "The Funeral of Being" non è nemmeno da considerare un album canonico, bensì uno scarabocchio, pesanti spennellate espressioniste trasposte in musica, uno schiaffo metafisico di 48 minuti disarticolato in ambientazioni psichiche, arpeggi decadenti, riff pigri e furiosi, grida strazianti che sfumano in un unicum teso a produrre sensazioni di disorientamento oltre che di disagio.
La qualità della registrazione varia di brano in brano (l'album raccoglie registrazioni compiute in momenti diversi fra il settembre 2001 e l'aprile del 2003), eppure quanto fondamentali ci suonano le scelte avventate compiute in sede di missaggio, questi suoni squilibrati e mal equalizzati che ergono una sfocata cattedrale di armonie sovrapposte, impasti di chitarra e tastiere e piatti macilenti che marciano inconcludenti verso il nulla. La voce del filtrato Malefic va e viene, a tratti impercettibile, a tratti deflagrante, ma sempre fondamentale ed al contempo inutile, mentre i brani deviano clamorosamente da una struttura razionale: psichedelia che corre a mille a l'ora per poi collassare in fraseggi che si muovono tortuosi secondo leggi entropiche che volgono verso un orizzonte di decadenza, desolazione, distruzione. E niente altro.
Momenti tirati si sommano a vuoti, assenze, disturbanti stasi, o temibili discese, ipnotiche precipitazioni elettro-acustiche, che quasi vien voglia di coniare un nuovo genere: il regressive. E perfino il modo in cui i pezzi si susseguono non sembra avere un senso compiuto: già la scelta di porre in apertura un brano strumentale di 7 minuti (l'intensa "The Awakening to the Unknown Percepetion of Evil", una di quelle partenze che non sentivo da tempo, dove riff gelidi come la merda a gennaio si fondono a lastre di synth e scorregge di Yeti!) ci appare alquanto insolita.
Brevi intro sono disseminate a casaccio per l'intero album, così, come stronzi congelati galleggianti in un mare polare, sprazzi di pianoforte asfittico, dissenteria di inquieti fraseggi di organo che copulano avidamente con riverberi di chitarra del 20 avanti Cristo.
E poi le due parti di "Blood from the Roots of the Forest", dove il secondo atto precede il primo (ma perché, poi?): non dico che ci sia della genialità in tutto questo, anzi, forse il tutto è frutto di superficialità, approssimazione, o semplice sciatteria, ma certo, per il pragmatico mondo del metal, spesso vittima di rigidi schematismi, questa irrazionalità, percepibile nella forma come nella sostanza, è davvero una buona cosa, appunto perché la prima (la forma) è funzionale alla seconda (la sostanza).
Le trame primitive e tortuose di questo post-metal derelitto concorrono a generare una dimensione labirintica (i corridoi dell'anima, sporchi di sangue e catrame), asfissiante (la polvere, le ragnatele), inconcludente (il passo incespicante di un cieco, disarcionato dalla ragione, che si affanna, raschiando le pareti, strisciando nel gelido lastricato ancestrale di un luogo angusto e senza limiti, nella speranza che il tempo - sempre che il tempo detti in questi luoghi la sua tirannia - lo sfinisca e lo corroda in un lento marcire).
E non si creda, infine, che l'opera brilli esclusivamente per i suoi intenti de-costruttivi: il song-writing, nei fatti, ci appare sempre profondamente ispirato e teso a comunicare, trasmettere sensazioni. E a questo punto mi sento di citare le parole di Amedeo Minghi, che in un'intervista, anni fa, spiegò come tutte le belle canzoni siano necessariamente napoletane; come, per capire se una canzone è veramente bella, bisognasse cantarla in napoletano (e per dimostrare la sua tesi intonò, pianoforte alla mano, "Another Brick in the Wall - Part II" dei Pink Floyd in napoletano, in una delle scene più orripilanti che mi sia toccato assistere durante la mia misera esistenza). E se vi dico questo, lo dico perché dovete prendere "Reflecting Hateful Energy" e cantarla in napoletano, e vi stupirete di come l'idioma partenopeo donerà alle tragiche evoluzioni del brano. Questo per dire che i bozzetti esistenziali scaturiti dall'anima melmosa del Malefic, cantore delle umane afflizioni, sono realmente belli, poetici a tratti, sconcertanti per la capacità di penetrazione emotiva.
"The Funeral of Being", per concludere, non è solo un album black metal, né tanto meno solamente metal, bensì un'opera di cantautorato: un uomo-artista ed uno strumento in mano, insieme per dare voce a dei sentimenti.
Quanto a me, quando sprofondo in "The Funeral of Being" smetto di esistere e confluisco in un qualcosa di più ampio... così ampio da somigliare al Niente.
Don't worry, be depressive!
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