[Contiene anticipazioni della trama]
La cosa incredibile, quasi miracolosa, di questo film di Dolan è che riesce a raccontare una situazione di grande problematicità e dolore attraverso una sinfonia visiva che non sarebbe sbagliato definire un inno alla vita, alla libertà e alla felicità. La forza della visione è data proprio dalla volontà di non adagiarsi mai, di non arrendersi al dolore e alla negatività delle cose: in questo senso la prova del nove l’abbiamo nel finale, quando Diane si trova costretta a rimandare il figlio Steve in riformatorio. Anche in quel frangente, quando il finale sembra propendere per il pessimismo, Diane ha la forza di continuare a sperare, arrivando a dire all’incredula Kyla «Vinco io!». Lo stesso Steve è ritratto nell’ultima sequenza mentre cerca di fuggire dall’istituto in cui è costretto: ma la sua fuga non è sofferente, è uno slancio vitale irresistibile, forse anche incosciente, ma comunque titanicamente affermativo.
Questa positività quintessenziale è evidenziata nella pellicola da diversi elementi:
Mommy è un film potentemente musicale: i brani non si contano e sono quasi sempre all’insegna della gioia, della positività. Si tratta di canzoni spesso puramente pop (Oasis, Dido, Simple Plan, Lana Del Rey) che sorreggono gli slanci vitali di Steve.
La dialettica tra Steve, la madre e Kyla serve sicuramente a mostrare l’aggressività e i complessi psicologici del ragazzo, ma al contempo, in una gioco duale sempre il bilico, funziona perfettamente come strumento di ilarità: le risate non mancano assolutamente guardando questo film, ma sono risate più vere e sentite perché, anche per lo spettatore, arrivano come consolazione alle difficoltà che assediano la coppia madre-figlio. Proprio perché nei suoi massimi sistemi la loro vita è sull’orlo della catastrofe, le piccole, magari inutili, gioie della vita quotidiana assumono un valore inestimabile.
L’utilizzo della luce è fondamentale per mostrare il prevalere dell’ottimismo: i momenti di vero dramma sono circonfusi d’oscurità, penso a quando Steve prende per il collo la madre ed ella si chiude in uno sgabuzzino buio, penso alla sequenze al bar con Patrick; le recrudescenze dei problemi di Steve sono quindi spesso anticipate da segnali cromatici, ma la stragrande maggioranza delle sequenze sono caratterizzate da una luminosità potente, i colori sono saturi, gli spazi spesso ariosi. È anche con questi cromatismi che Dolan trasmette il prevalere della vita, della gioia, della spensieratezza.
Non ultimo elemento corroborante della vena positiva della visione di Dolan è la fisicità straripante dei suoi protagonisti: Steve e la madre Diane sono seguiti dalla cinepresa in tutta la loro energia fisica. Si spiegano così le lunghe e bellissime riprese che indugiano sui movimenti della madre, sul suo corpo ancora fiorente: la sua bellezza ancora fresca non vuole solo indicare in parte la sua immaturità (vedi la sigla del nome col cuoricino), ma è anche segnale di una forza innata, una resistenza e un’agilità esistenziali che le sono date come retaggio genetico. Il cattivo gusto di un vestiario troppo procace si ribalta in una dichiarazione di intenti: Diane non si arrende alla vita, non si lascia invecchiare dai problemi. La bellezza di questa forza sta soprattutto nel suo essere inconscia, non ragionata, profondamente istintiva: come le dice Patrick, la sua bellezza è data soprattutto dal suo non rendersene conto. Allo stesso modo, nel dialogo finale con Kyla, la sua positività superiore svetta trionfalmente: la pur buona Kyla si sente in colpa per il suo trasferirsi a Toronto, ma a Diane questo non passa nemmeno per la mente. Il primo pensiero è sempre gioioso, un andare incontro alla vita a braccia aperte. Scotto da pagare sono alcuni momenti di disperazione, ma sono come la rincorsa necessaria a spiccare un nuovo salto.
Al pari, il figlio Steve è un felicissimo esempio di contraddizione in termini: come i suoi momenti nichilisti sono totalizzanti, allo stesso modo quelli positivi hanno tendenze iperboliche. Ne abbiamo squisita rappresentazione quando Steve gira su se stesso col carrello della spesa: il vorticare di energia è vertiginoso. Oppure, Steve che corre in mezzo alla strada col carrello, infischiandosene delle automobili che stanno per sopraggiungere.
Mommy è un film straordinario proprio perché riesce ad argomentare la necessità di essere felici e di prendere positivamente la vita poggiandosi sostanzialmente sul nulla. Non c’è un vero motivo per cui i nostri protagonisti debbano essere felici; la vitalità giunge come inevitabile, come unica possibilità di esistenza. Dolan ci dice che non esiste vita se non la si abbraccia appieno, l’unico modo per vivere bene è lasciarsi trasportare verso l’alto dal vento dell’ottimismo.
Questa filosofia è racchiusa anche nella parabola di Kyla: la sua balbuzie è simbolo dell’incapacità di lasciarsi trascinare dal flusso vitale. In un primo momento la donna è chiusa, impietrita di fronte a Diane e Steve: questa chiusura è figlia di una vita familiare caratterizzata dalla freddezza, una glacialità data dal vivere negativamente ogni problema. Non è un caso che suo marito e sua figlia non diventino amici del vicini: essi rimangono invischiati nell’immobilismo tragico che aveva tolto le parole a Kyla. E le parole sgorgano meravigliosamente cristalline quando la donna si lascia sollevare dal vortice di energia di Diane e Steve.
A coronare una visione così bella e necessaria ci sono poi gli aspetti più tecnici della pellicola: il formato dell’immagine (rapporto 1:1) è pensato per inquadrare in primo luogo le figure umane che popolano la vicenda. Meravigliosi primissimi piani raccontano i momenti più intimi, raccontano il rapporto amoroso che lega in fin dei conti una madre e un figlio. Questa cornice così stretta permette alle immagini di non risultare mai vuote, spopolate: non abbiamo uno scenario ampio e quindi desolante che circonda le persone, esse sono come abbracciate dall’occhio del regista che vuole tenerle strette in un nocciolo palpitante.
Il film sarebbe stato poi impossibile senza le prove maestose dei tre attori principali, Anne Dorval, Antoine-Olivier Pilon, Suzanne Clément. Sinceramente io mi sono dimenticato che fossero attori. Li ho vissuti come persone reali.
Ogni momento di gioia nasconde in sé l’insidia del successivo crollo tragico; per quanto nessuna crisi possa distruggere l’energia inesauribile dei due, il regista si diletta non poco nel sollecitare l’allegria degli spettatori per poi suggerire loro l’imminenza di un fatto nefasto attraverso l’ammutolirsi delle musiche o altri calibratissimi artifici del linguaggio visivo. Esempio supremo di questa poetica è il sogno ad occhi aperti che fa Diane la mattina in cui riporta il figlio in istituto: l’affastellarsi di immagini estremamente positive è evidenziato come ingannevole da un uso smodato della musica, dalla rapidità dello scorrere delle sequenze, dalla fotografia dominata da colori rossastri e infine dalla progressiva sgranatura delle immagini. Il ritorno alla realtà è brusco e sottolineato in maniera oppositiva con colori freddissimi.
Il film non riempie il cuore perché racconta una storia edificante: non si può dire che la vicenda finisca bene. Dolan va oltre: ci dice che anche quando tutto va male, quando la vita è irta di spine e asperità, l’unica via possibile è vivere positivamente, trovare la gioia nel puro essere al mondo, liberi.
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