Pian piano anche noi poveri italiani riusciamo a vedere i primi film di Dolan al cinema. Dopo Laurence Anyways arriva nelle sale (pochissime) anche questo Tom à la ferme, quarta opera dell'enfant prodige canadese, fresco vincitore a Cannes. Non avendo ancora visto gli altri tre film di Xavier, l'unico confronto che posso sviluppare è quello con Mommy. È evidente che tra i due lavori ci sia uno scarto stilistico e di maturità complessiva davvero rimarchevole. A livello narrativo Tom è un buonissimo film, certo, ma presenta anche diversi momenti eccessivamente gridati e un po’ goffi, ben lontani dalla visione matura e quasi pacificata di Mommy.
Lo stile non è ancora pienamente definito e personale; troppo enfatico oppure scolastico, senza spunti freschi. Le musiche sono rivelatrici in questo senso: qui abbiamo un paio di canzoni strappalacrime e un commento orchestrale che sarebbe stato più adatto a un thriller poliziesco. La tensione viene sottolineata bruscamente con picchi sonori alquanto sgraziati e un po’ fuori luogo. La vicenda quindi viene traslata in un genere che non le appartiene pienamente, risultando perciò troppo enfatizzata, strombazzata in modo indelicato. O meglio, la delicatezza c’è, ma viene spesso giustapposta a momenti thrilling che funzionano meno di quanto si vorrebbe. Poco male, stiamo parlando comunque di un regista che nel 2013 aveva appena 24 anni; semmai, ripensandoci, è la maturità estrema di Mommy a lasciare sconcertati.
Tom à la ferme pecca un poco anche nella scrittura dei dialoghi, spesso macchinosi e innaturali: rivelatrice la sequenza al bar in cui Tom si fa raccontare un episodio violento di diversi anni prima con protagonista Francis. Se c’era un modo per smorzare l’impatto delle parole, gli sceneggiatori l’hanno trovato. Questa scarsa icasticità delle parole cozza per di più con lo stile gridato della regia.
Ma tutto sommato sono difetti non compromettenti, soprattutto a fronte di un notevole ricchezza narrativa complessiva. Da questo punto di vista Dolan viaggia già su livelli altissimi: la costruzione dei personaggi è mirabile e riesce a postulare una serie di contraddizioni laceranti che hanno in Francis, fratello del defunto Guillaume, il loro epicentro. Ma forse qui il ritratto dei caratteri è più concettuale e simbolico che intimista (in fondo questo è un film di denuncia [1]), anche a causa di uno stile che non riesce a scavare a fondo come succederà invece in Mommy. I personaggi sono ben fatti, complessi, contraddittori, sospinti e sconvolti da passioni e sentimenti in continuo attrito e stravolgimento; ma manca qualcosa. Mancano dei tratti peculiari, anche gratuiti, che facciano emergere dallo schermo i profili, facendoli sentire come reali. Mancano i dettagli inutili, le sequenze di pura divagazione che completano il tutto tondo dei personaggi. Dolan poteva dirci molto di più delle persone, oltre a scrivere delle funzioni narrative ottime e non banali. Emblematiche le inquadrature: il regista sembra quasi non osare avvicinarsi troppo a Francis, per pudore o timore nei confronti di un ego così frastagliato. Ma insomma, il confronto col lavoro successivo rischia di portarci a sminuire eccessivamente questo buon film.
La figura di Francis è comunque memorabile nel suo riuscire a tenere insieme Eros e Thánatos. Dolan affastella su questa figura tantissimi elementi e li lascia reagire come in una formula chimica insana. Un coagulo psicologico eccezionale (ben reso dall’attore Pierre-Yves Cardinal) che purtroppo non viene approfondito fino in fondo, anche perché le questioni in gioco sono enormi e evidentemente il regista non è ancora pronto per svolgere tutto nel modo migliore. Il film apre molte finestre e poi non sa/non vuole chiuderle. Forse perché più che trovare soluzioni al regista interessa aprire fronti critici, porre le premesse per rappresentare contrasti distruttivi, come quello del povero Francis, vittima e carnefice al contempo. O forse semplicemente è ancora troppo giovane e inesperto della vita per dare risposte a certe domande pesanti.
6.5/10
[1] In realtà anche Mommy lo è, ma secondo me molto meno. Nella mia recensione, dicevo che l’uso del formato 1:1 poteva servire per tenere i personaggi stretti in un abbraccio registico, per non lasciarli soli. Dolan mi ha smentito qualche mese fa, quando ha inviato una lettera a Netflix lamentandosi del fatto che fosse stato cambiato il formato al film, disgregando così «il sentimento di oppressione sociale rappresentato da quel formato». Boh, io in Mommy continuo a vederci una “speranza nonostante tutto”.
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