La prima volta che sentii "Big Day Coming", la prima delle due omonime presenti su "Painful" (Matador, 1993), fu un fulmine a ciel sereno. Una vera e propria rivelazione. Non credevo si potesse arrivare a così tanto con così poco. Un giro d'organo di tre note ripetute ad libitum, eppure tutt'altro che ossessivo. Un arpeggio sfiorato, sostenuto da un giro di basso inesistente. Keplan che inizia a sussurrare e poi a domare feedback chitarristici ornamentali che si insidiano graziosamente tra una melodia e l'altra. Sarò banale, ma non saprei definire l'amalgama risultante diversamente da magia. Starsene sdraiati su una distesa di nuvole, tra il cinguettar degli uccelli e il raffiorar delle emozioni che più hanno contato. Serenità. Nulla era sbagliato. Pensai che se al mondo esistesse la perfezione, quella vera, quella che non stanca nemmeno per la troppa precisione, doveva essere proprio nascosta nell'atmosfera onirica di quella canzone. Ebbi modo di ridimensionarmi, relativamente, ma l'impatto che ebbe quel brano apparentemente semplice fu davvero notevole. L'impatto di quel brano è davvero notevole.
Poi, una volta sceso giù, non ho avuto alcuna sorta di down, anzi, mi sono sentito come quando si è innamorati, ma non c'era nessuna dolce metà ad aspettarmi da nessuna parte. Solo uno scarabocchiato riff di chitarra ("From a Motel 6") che avrebbe messo in imbarazzo i Sonic Youth in veste collegiale, quasi radiofonica.

I primi due brani introduttivi valgono già un qualsiasi disco che valga qualcosa. E la tentazione di concludere ora proponendo il link all'acquisto del CD su Amazon è tanta.

Non è per niente facile parlare di un disco come questo. Ho addirittura ipotizzato non fosse ancora stato proposto in questa sede giusto per evitare di intraprendere un palloso quanto sensibilmente doveroso track-by-track. Doveroso perché è come se si avesse a che fare con un concept-album, dove non ci si può esimersi dal toccare un qualsiasi punto di passaggio del disco.
"Painful" brama il track-by-track. Come fosse un concept, ma senza concetto di fondo. Un concept sonoro, una sorta di cammino verso la purificazione e la beatitudine dell'ascoltatore. Un percorso musicale che culmina con la pace dei sensi a seguito dell'emotivo strumentale in chiusura, "I Heard You Looking".
I Yo La Tengo in questo disco non sbagliano nulla. A scrivere non è un fanatico. Qui ogni passo è semplicemente quello giusto. Ogni arrangiamento, che sia scarno ("Nowhere Near", con Hubley alla voce) o corposo e possente come l'organo e le distorsioni di "Sudden Organ", è creato con cognizione e assume forma aggiungendo un tassello dopo l'altro ad un'opera che prende vita una volta terminata. 

Sebbene qualche brano possa apparentemente rivelarsi sconclusionato (quale?!), nel suo contesto fa la differenza. Saltare un passaggio a caso equivarrebbe a precludersi un grande momento per un nobile fine.
C'è un brano nel disco, una cover di "The Whole of the Law" dei The Only Ones, che preso singolarmente potrebbe sembrare nient'altro che una piacevole ballata, ma che tra i due momenti più impetuosi, più veementi di "Painful" ("I Was the Fool Beside for Too Long" e "Big Day Coming (2)") si pone come due minuti di distensione, in cui l'ascoltatore si stira e si ristora, in preparazione dello struggente atto liberatorio conclusivo (succitato).

Visibilmente in difficoltà e tutto sudato, concludo con una banalità in stile "l'acqua è bagnata...": la musica va vissuta sulla propria pelle e talvolta, anzi, molto spesso le parole non possono bastare. Sicuramente non potranno mai esprimere un'emozione scaturita da una musica. Sarebbe come spiegare a un sordocieco la sensazione della percezione uditiva.

Sono dunque pronto al rimbroso, non posso dispensarmi da questa tentazione: Un Link

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