QUINDICI CANZONI.
SUL PIATTO
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di odradek

Qualche sera fa ascoltavo Lou Reed tessere gli elogi della tecnologia applicata alla musica, seppellendo il passato ed i nostalgici.
Qualcosa del tipo: “I vecchi dischi sono roba da maniaci, oggi puoi andartene in giro con 5.000 canzoni in tasca, chi vuole il vinile, chi vuole il fruscìo del vinile?”
Come dargli torto, pensavo.
Certo, Lou, con i suoi 64 anni, è un giovane.
Un’icona del rock è giovane di default.
E poi l’adesione a queste nuove sterminate possibilità pare estendere la condizione anche ad attempati signori, costituendo una sorta di gioventù diffusa nell’entusiasmo della scoperta, una gioventù colossale.

Ma mentre mi alzavo dal divano per avvicinarmi ai dischi e scegliere quello che volevo, mi sono accorto che stavo pensando: “Ma chi le vuole 5.000 canzoni in tasca? Sono irrimediabilmente vecchio. A me, adesso, ne bastano 15.”

E, aspettando che la puntina incontrasse i solchi producendo l’inconfondibile crepitio, osservavo l’immagine sulla grossa copertina di cartone. Un vecchio disco, un disco di 25 anni fa.
Perché a 25 anni un disco è vecchio, vero?

Infatti, strappati dalla condizione di beato riposo nella quale giacciono per gran parte del tempo, tra centinaia di loro simili, gli Young Marble Giants hanno bisogno di un po’ di tempo per ambientarsi (ed io con loro) una volta giunti sul piatto, nel nudo vinile rotante e frusciante.
Perché quella povera batteria elettronica sembra impossibile, poco più che un giocattolo, con i suoi patterns spartani.
E quel basso… un suono con l’anno impresso sulle corde, un basso primi anni ’80 al 100%.
Poi arriva la linea sottile, ma nitida ed inconfondibile, della voce.
E sono nuovamente nel minuscolo regno dei Giovani Giganti di Marmo.

Colossal Youth, unico album del terzetto gallese, usci nel 1980, l’anno di “Crazy Rhythms” dei Feelies, di “Art Of Walking” dei Pere Ubu, di “Half Mute” dei Tuxedomoon, di “Remain In Light” dei Talking Heads e “Closer" dei Joy Division. E molti altri (ché per essere l’inizio di una decade tanto bistrattata, il 1980 sfornò un sacco di cose buone). Eppure, nonostante tanta affollata concorrenza, trovo sempre il modo di risvegliarli, loro, per qualche giro sul piatto...

Dentro ci sono 15 canzoni, tenute insieme dal parsimonioso uso di una strumentazione scarna (basso, chitarra, organo e la scatoletta della drum machine) immerse in un’atmosfera sospesa dove, ogni volta, quel che mi colpisce di più è lo spazio che si apre intorno a quei pochi elementi.

Come se le loro canzoncine depurassero l’aria che le circonda, aggiungendo una particolare qualità di silenzio circostante, isolando l’ascoltatore in una piccola scatola con un riverbero naturale.
Dove non c’è bisogno d’altro.
Tanto meno della famigerata “urgenza espressiva”.
Nessuna enfasi, infatti, nella voce solo superficialmente diafana, ma in realtà morbidamente chirurgica, di Alison Statton.
Capace di tracciare traiettorie melodiche dall’apparente semplicità nelle quali fluiscono parole a volte anche strazianti e spietate.
E i suoi due compari agiscono nella stessa direzione, con medesima frugalità, declinando in forme diverse ingredienti che affiorano spesso solo come evocati, in una linea “western” del basso, nell’incedere vagamente retrò di un organo, in una rumba al battito meccanico.

Canzoni costruite quasi come haiku, dalla durata media appena sopra i due minuti e mezzo. Singolarmente diverse da quasi tutto quel che si sentiva in quegli anni, e ancora oggi uniche.

Canzoni minimali, direi.

Ma meglio precisare: non mi riferisco alla corrente musicale spesso citata a sproposito, piuttosto ai racconti di Carver.
Che a riguardo della propria scrittura, del suo procedere per sottrazione, era solito dire: “Altri scavano fino all’osso, io cerco di arrivare al midollo”

Qualcun altro, in giro per la rete ha usato, a proposito delle loro canzoni, il termine “scarnificate”.
Suona un po’ brutale, troppo aggressivo.
Lontano dalla natura gentile di questi microscopici giganti.
Io lascio volentieri a voi la scelta dell’aggettivo più adatto, insieme ad un gruzzolo di samples estratti dal cd, dai quali trarre qualche fugace impressione.

Si, perché pur non essendo giovane come il vecchio Lou, ho pensato non fosse una cattiva idea procurarsi anche la versione in cd, data alle stampe nel 1994 dalla “Les Disques du Crepuscule”. Che contiene naturalmente le proverbiali bonus tracks.
Magari troveranno posto nella tasca di qualcuno di voi, tra altre migliaia, compresse in qualche diabolico formato.

A me, stasera, bastano le 15 piccole storie originali.
Non un secondo di più, non un fruscio di meno.
Servite fresche e limpide come un tempo.
Sul piatto.

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