La serata regala attimi di purissimo autunno, su Milano ha finito di diluviare da poco, tira un vento bagnato. Decido di arrivarci a piedi al Rocket, facendo un rapido calcolo deduco che non dovrebbe essere molta la distanza quindi non ci penso troppo ed opto per lasciare riposare Latrina (la mia macchina) e farmi due passi. Quando i passi diventano quattro, sei, otto capisco che il calcolo è stato clamorosamente sbagliato, ma ormai sono per strada; ad ogni modo quest'atmosfera la adoro, adoro i riflessi delle luci nelle pozze d'acqua, camminare con le mani in tasca, smadonnare perché l'accendino si spegne col vento. Mentre scalcio foglie gialle e mi inzuppo i piedi sul marciapiedi di viale Toscana, poco prima di girare in via Pezzotti, un solo pensiero mi tormenta: "chi cazzo sono gli Yuck?".
l Rocket è un buco, lo si riconosce per una grossa R che sporge dal muro all'altezza del civico 52, in assenza della quale la sola vetrina presente potrebbe sembrare quella di un negozio per animali, senza animali, o del salone da parrucchiere di un cinese, senza caschi per capelli e senza cinesi. Il furgone degli Yuck è parcheggiato di fronte, dentro dorme una donna (che più in là scoprirò essere Mariko Doi, bassista accecata dalla sua stessa frangia), intravedo a bordo una cassa di RedBull ed una di birra. Proprio la dea ambrata si rivela un ottimo modo per ingannare l'attesa prima che arrivino i buttafuori e che il locale possa quindi aprire; dopo due Tennent's continuo a non sapere chi siano gli Yuck, ma adesso mi stanno simpatici. Il locale apre, il bancone serve da bere, butto giù un Long Island e gli Yuck diventano il mio gruppo preferito, aggiungo un Whiskey&Coca e gli Yuck sono i fratelli che non ho mai avuto; in tutto questo continuo a non sapere chi diavolo siano, ma intanto il piccolo Rocket si colora di rosso e si ingozza di persone, gli amplificatori passano gli M83, fuori la gente fuma riparandosi sotto i balconi. C'è una gran voglia di distrazione qui, che viene sfogata con abiti vintage, capelli e cappelli colorati, bretelle, trucco che risalta gli occhi e rossetti accesi. Io indosso una felpa nera che porta sulle maniche i colori del Senegal, Camerun, e penso di altri dodici milioni di stati, Jeans blu scuro e scarpe Nike nere, mentre consumo una Gauloises rossa sento che dall'interno i primi colpi di batteria mi richiamano.
Se il Rocket, come già detto, è un buco, il sotterraneo è una caverna con un palco omologato per band di non più di 5 membri. Si sta stretti, si vede poco, un gruppo di cinque perfetti sconosciuti apre schitarrando motivetti Indie in Inglese ma ringraziando in Italiano, io faccio ondeggiare la testa in segno di gradimento. Finalmente - penso - gli Yuck assumono ai miei occhi una forma ed una sostanza, ora potrò finalmente catalogarli sul mio scaffale dell'Indie Rock come una delle belle scoperte che, senza nessun grido al capolavoro, lasciano quel senso di appagamento a fine serata. Una mezz'ora abbondante e poi salutano, mi sento un po' derubato dei miei 15 euro compresa consumazione ma pazienza, risalgo verso il bancone e mi gongolo un po' sullo sgabello prima di scoprire un'agghiacciante verità: questi non erano gli Yuck, erano il gruppo spalla, tali Chaos Surfari. Ora le luci nel locale si sono fatte più basse o è la mia vista ad essere annebbiata, un amico ordina anche lui un Whiskey&Coca. Fatta la mia bella figura da stronzo, torno nella caverna, prima però mentre sono in coda per il bagno mi sfiora una verità assoluta: io senza le luci rosse, verdi e blu dei locali bui come il Rocket non riesco a stare a lungo, ogni tanto ho bisogno della mia dose, stare in mezzo ad una tribù di sconosciuti tutti lì per quelle quattro canzoni, finché nessuno ancora li conosce, consumazioni doppie o triple, timbri sui dorsi delle mani per poter uscire a fumare in attesa, sempre, di quelle quattro canzoni che ogni tanto sono anche solo di contorno. Gli Yuck, quelli veri, arrivano ora. Un fungo di capelli ricci con sotto attaccato Jonny Rogoff si siede alla batteria, Mariko Doi s'è svegliata e si avvinghia attorno al suo basso, Daniel Blumberg sta a sinistra con chitarra, microfono e la sua espressione da pesce lesso, Max Bloom all'altra chitarra a destra. Ora ci stringiamo la mano davvero, e la stretta è di quelle decise e rilassate, Noise Pop dal gusto artigianale e ben preparato, sparato di continuo, per un'ora, a rimbalzare fra le quattro vicine pareti della caverna sotterranea del locale. Lo spazio per ondeggiare è ancora meno ma me ne frego, e mi abbandono, davanti a me una creatura dai capelli neri, lisci e profumati probabilmente non regge il mio continuo alitare i resti dell'hamburger e nonostante la ressa riesce a spostarsi due metri più in là, il materiale a disposizione non è molto (solo un disco, omonimo) quindi sì, posso dire che gli Yuck sono questi, ragazzini mal pettinati ed inesperti che trattano la musica coi guanti, la sporcano con criterio, sono di quelli che vedono arte in un insieme di colori gettati senza apparente ragione su una tela nera, quella del Rocket, via Pezzotti 52, Milano. Non è forse questo l'Indie nel suo profondo?
Esco, ora piove a dirotto, divido con un amico l'ultima sigaretta e scrocco fortunatamente un passaggio almeno fino a metà strada, cammino affamato fino a casa e il mio pensiero di inizio serata è cambiato in tanti pensieri di una sola parola: "Operation", "Georgia", "Rubber".
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