"Ma lo sai cosa sta succedendo là fuori?"

"Certo, io la guardo la televisione!"

Succede raramente, ma quando succede è una cosa splendida. La mia voglia di film repressa da impegni vari e improrogabili esplode, così, in questo paio di giorni di assoluta nullafacenza. In questi periodi morti può accadere di tutto a livello filmico. Tipo, in pieno stile horror, ritrovare un film sull'hard disk totalmente ignoto, che non ricordavi nemmeno di esserti procurato, un po' come quelle videocassette senza titolo di famiglia. Quando succede, bisogna prostrarsi di fronte all'ignoto e abbracciarlo: è sempre un segno del destino.

Quindi.

Peep "TV" Show.

Anno 2004.

Regia di Yutaka Tsuchiya.

Un'ora e quaranta che ti travolge come un fiume in piena. E poi il vuoto. Amo come esistano certi film che rifuggano totalmente dal concetto di catalogazione, mettendo subito in crisi possibili discussioni a riguardo, recensioni o anche solo giudizi. E proprio per questo il mio scritto risulterà caotico, mal strutturato (perché poi, anche, il caos è lo spirito stesso del film), nel tentativo di elencare, spiegare e consigliare. Soprattutto trattandosi di un film sconosciuto dovrei sforzarmi, spremere le meningi, cercare di ricollegare tutte le idee come se potessero coinvolgere qualsiasi tipologia di lettori. Io ci provo, ma il fallimento sarà totale. Perché Peep "TV" Show è un film che sfrutta in modo totale il suo essere oggetto cinematografico (un po' come l'"Ulisse" di Joyce è totale nel suo essere mezzo letterario) tanto da rendere difficoltoso parlarne.

Se si potesse dare una coordinata di genere quella sarebbe "psychological documentary", ma saremmo ancora su un territorio riduttivo. Ciò che è certo è che si tratta di uno dei più geniali e complessi film che mi sia capitato di vedere da un bel po' di anni, una riflessione sorprendente sul rapporto realtà-finzione, sullo scontro immagine-privato, oltre che metacinema neanche troppo sottile.

Una complessa rete di personaggi e atti vandalici per dirci che, sotto sotto, vorremmo che la nostra vita diventasse il nuovo 11 settembre. E basta? No. I ritratti di gente che ne escono fuori sono desolanti e vuoti come quelli del "Pulse" di Kurosawa. Solo che là c'era la scusa che erano dei fantasmi intrappolati tra il di qua e il di là, qui ci sono persone viventi. Viventi e false, per questo verissime.

Ci sono due personaggi che, però, seguiremo più spesso: da una parte c'è un punk apatico e smorto con l'ossessione di scontrarsi con la VERA realtà. Dall'altra una ragazza che si traveste da lolita, entrando così in una guerra interiore combattuta tra il vero sé (destinato alla morte) e la maschera del ciò che appare. I due protagonisti sono legati tramite il sito peeptvshow, che permette di spiare la gente comune durante le loro faccende quotidiane: soste nei bagni pubblici, pedicure, dormite, cene, pianti domestici.

La genialità del film, il suo concetto di spettacolarizzazione mediatica e di tempo come merce (Yutaka dimostra di conoscere bene Guy Debord) si riversa nell'uso del medium cinematografico, l'immagine pura destinata a creare topos, status symbol ed emozioni da vendere. C'è una scena, in particolare, che è particolarmente esemplificativa: la ragazza gothic lolita che si ritrova con altre ragazze come lei, tutte facciata e poca sostanza. Una di loro afferma che, per tornare al pesoforma, corre di notte tutti i giorni per un'ora. Vedremo più volte questa ragazza in tenuta da jogging, primissimo piano, correre con la disperazione e la fatica sul volto. La banalità dell'esistenza diventa spettacolo puro: inserita nel montaggio, questa scena -di nessuna apparente logica narrativa - crea suspense, tensione, lascia intendere che le vite dei personaggi, anche nelle loro azioni più normali, aprano innumerevoli scatole cinesi attraverso il quale il film si costruisce con un approccio al cinema quasi lynchiano.

Un modo di fare cinema anarchico, scombussolato, dove anche l'uso di obiettivi deformanti (fish-eye su tutti), una fotografia amatoriale e sporca e montaggio volutamente ingenuo contribuiscono ad un vivere destinato alla messa in scena. Lo spirito è punk, ma anche esistenziale, un po' come quei film rivoluzionari che Masao Adachi girava negli anni '70.

E che dire della recitazione? La recitazione esalta la falsità della natura del documentario: un genere cinematografico che ha la "presunzione" di raccontare la realtà, quando una cosa che viene filmata (anche se si tratta di un filmino matrimoniale) diventa sempre falsa, anche solo per il fatto che viene fruita in un tempo che non è il "qui e ora". I personaggi recitano palesemente, a volte guardano in camera e parlano meccanicamente, come se avessero imparato il testo a memoria. Altre volte, ancora, leggono direttamente le proprie battute.

"In questo momento tutti mi stanno guardando. Sono sdraiata sul letto e guardo il soffitto. Non so cosa fare. Penso a tutte quelle persone che mi guardano. Chissà cosa vogliono: forse vorranno qualcosa di più coinvolgente, di più intenso."

Yutaka indaga la società odierna, immersa in un'anima "fake", talmente alla deriva da poter vivere solo fruendo di immagini. False e per questo verissime, perché le nostre vite perdono di senso di fronte al pieno coinvolgimento delle vite degli altri. Perché la realtà è molto più affascinante della menzogna, ma sappiamo che è tremendamente noiosa. E quando la propria vita si trasforma nel nuovo 11 settembre, si può anche morire. Perché non si può andar oltre: è la realtà tragica che diventa subito merce, trauma collettivo, cinema puro.

Io azzardo: capolavoro, nonché uno dei film inaspettatamente più belli che abbia visto quest'anno.

E quando succede per puro caso, è ancora più bello.

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