Introduzione:

Due anzianotte figure, benemerite ma “minori”, del buon pop anni sessanta imbastardito di psichedelia e di rock, sono da tempo di nuovo insieme, dopo aver iniziato congiunti nel 1964 fondando gli Zombies, avere attraversato separati gli anni settanta (Argent col gruppo a suo nome, Blunstone spesso con l’Alan Parsons Project oppure da solo), proseguito negli ottanta e novanta a spizzichi e bocconi fra lavori solisti e collaborazioni illustri (Who, Ringo Starr, Manfred Mann’s Earth Band, serie televisive di successo).

Il compositore è il solo Argent, ma il cantante principale è Blunstone, titolare di una voce ieratica, malinconica, inconfondibile, proprio bella. I tanti che hanno esplorato la discografia dell’Alan Parsons Project la conoscono bene. Argent possiede invece un timbro più chiaro e anonimo, a cui aggiunge peraltro un’invidiabile perizia sul pianoforte (ha fatto uscire a suo tempo anche un disco in cui reinterpreta Chopin, Bach, Grieg aggiungendovi alcune sue composizioni classiche) e sulle altre tastiere.

Contesto:

Siamo nel 2004, la ricostituzione degli Zombies è qui alla seconda tappa, la prima risalendo al 1999 e con altre due pubblicazioni che poi seguiranno nel 2011 e 2015. Per la sezione ritmica Rod Argent provvede a riesumare suo cugino il povero Jim Rodford (rimasto secco cascando dalle scale!.. un paio d’anni fa), suo bassista anche negli Argent, il quale si porta dietro il figlio Steve batterista. Un paio di anonimi chitarristi chiudono la formazione, che dunque ribadisce decisamente il concetto di base da sempre associabile agli Zombies: pop rock basato sulle tastiere e su due valide voci. Oltre all’orchestra, arrangiata con molta bravura dallo stesso Rod, uno che ha studiato.

Punti di forza e lacune:

Di buono c’è che la musica è equilibrata, intelligente, professionalissima, piacevole, variegata.

Di deludente c’è invece il fatto che l’invenzione tematica non è certo sfavillante. Non per niente la meglio canzone del lotto è l’unica non scritta da Rod Argent, s’intitola “I Don’t Believe in Miracles” e appartiene al suo vecchio socio negli Argent il chitarrista Russ Ballard. La si può sentire nel loro album dal vivo “Encore” del 1974, con lo stesso autore Ballard per l’occasione al pianoforte a coda abitualmente nelle mani di Rod.

I brani insomma sono tutti ben costruiti e arrangiati, purtroppo buona parte di essi esce subito dal cervello appena ascoltata, non succedendovi mai nulla di veramente eclatante. Morale: è un disco da risentire varie volte prima di riuscire ad estrarne vero godimento.

Vertici dell’album:

La seconda traccia “Memphis” dà suggestioni del tipo del vecchio Progetto di Alan Parsons. Sarà la voce, i cori e i violini spiegati in sonorità Abbey Road nel ritornello…

I Want to Fly” è fra le più belle. Blunstone vi sfodera il suo canto più romantico e intimista, il pianoforte giostra elegante e sapiente intorno ad essa, adagiato su un letto di violini e mormorii. Begli accordi, zuccherosa ma mirabile.

La già nominata “I Don’t Believe in Miracles” è una ballata dallo struggente ed eccelso contenuto melodico e armonico. L’adoravo già ai tempi degli Argent, vi rimango ancora molto affezionato. La migliore per distacco.

Il brano che intitola l’album ha la struttura tipica (pianoforte jazzato, accordi ricercati, orchestra “grossa” a‘la Buckmaster a contrappuntare la voce) dell’Elton John d’annata. Col distinguo che la voce di Blunstone è molto più eterea dell’esplosiva emissione tenorile del giovane Elton. Anzi, all’inizio par di sentire il canto delicato e intimista del miglior David Crosby.

Il resto:

L’apertura “In My Mind a Miracle” è un mezzo rhythm & blues dignitoso, pulito, efficiente.

South Side of the Street” ha melodie risapute e si fa apprezzare in ogni caso per il pianoforte perfetto di Argent, velato di jazz alla maniera di Billy Joel. I due amici si dividono il canto, una strofa per uno e poi la terza a botta e risposta.

Time to Move” è la più fracassona del lotto (si fa per dire): un rock’n’roll telefonatissimo nelle sue abituali sequenze di (pochi) accordi e tipicissime soluzioni vocali.

Un brano che non sa di nulla è poi “With You Not There”. Nel generale andazzo di testi melensi, questo è il più irritante e rimasticato… lei che se n’è andata e lui che non sa cosa fare e ci pensa e ci ripensa. Stessa cosa più o meno per “Against the Sun”, però più incisiva e con la voce di Blunstone più godibile, ben contornata da un oboe romanticissimo.

Together” si diversifica perché inizialmente condotta dalle chitarre acustiche (poi arriva lo Steinway di Argent, molto più pregnante…), a pilotare un ritornello alla Beatles. Però la soluzione di affidare la ritmica alle congas è un po’ infelice.

Un riempitivo anche la chiusura di “Look for a Better Way” che non riesce ad avere una sua personalità, malgrado i bei suoni di Hammond e di piano elettrico. Lenta e prevedibile.

Giudizio finale:

Niente d’indispensabile, ma gli sforzi pre-pensionamento dei grandi musicisti che hanno costruito il sottobosco del rock nei suoi anni ruggenti sono spesso così. Musica retrò, adatta a chi (come me) non perde tempo a cercare di rendere tollerabile a se stesso la musica pop e rock “attuale”. Tre palline e mezza.

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