La fisicità ritualizzata intervallata da baratri catatonici è penetrata nel subconscio, come strapiombi neri, ricolmi dell’ indicibile.

Che cazzo ha in corpo sto’ vinile a 10 pollici avvolto in materiale per asfaltare pitturato ed agghindato da carta adornata con geroglifici ed icone di Mao?

Che cazzo ha in corpo “Luft”?

Avvolta in un cinereo bianco e nero, tellurica visione di morte, come quella fottuta testa di maiale putrefatta conficcata su di un bastone nel signore delle mosche, come le immagini di quotidiana vita cittadina deturpate, affastellate, ammassate, iper-cinetiche che deragliano su una figura accasciata senza vita nei giorni contati di Petri, nel reclusorio dell’ isola di San Giuseppe nelle buie e afose celle d’ isolamento, nel silenzio totale, gli unici suoni udibili erano il rimbombo del mare che cozzava sulle falesie e le urla immonde provenienti dall’ adiacente manicomio, sicuramente se si aprivano bene le orecchie il deflagrare di “Luft” era perfettamente udibile, quella mattina, appena prima di svegliarsi, in un sommesso ed angosciato dormiveglia certamente nel nuovo apparato uditivo di Gregor Samsa risuonava sconquassante “Luft”.

L’ apertura del disco era affidata ad una breve, abulica e perlacea “Moresca”, quasi a costruire un’ anticlimax aereo e fluttuante, a “Shekinah” il compito di chiudere il primo lato, sorta di torbida ed amorfa pozza di catrame in cui avrebbe sfociato ormai esangue “Luft”.

“Gris” diventa così l’ immaterialità ritualizzata, i baratri si richiudono in orizzonti sconfinati, costituito quasi solamente da voci trattate, irriconoscibili, rigonfie, spaventosamente indecifrabili il brano straborda in frammenti sussultori caliginosi ed acuminati, livido aleggiare in stato di morte apparente, annullamento.

Che cazzo ha in corpo sto’ disco?

Carico i commenti...  con calma