Jonathan King è una figura defilata del panorama pop rock inglese, a cui vanno però ascritti due grandi meriti: quelli di aver accolto, sostenuto e permesso di “rompere il ghiaccio” a due gloriose formazioni britanniche, primariamente i Genesis nel 1969 ed in seguito questi 10cc, all’esordio (con questo disco qui) quattro anni dopo, nel 1973.
Qualche soldino, non molti, il gruppo l’aveva già messo insieme sotto l’originale monicker di Hotlegs, col singolo del 1970 “Neanderthal Man” che aveva attecchito nelle classifiche (anche in Italia, sospinto dalla quotidianità radiofonica di “Alto Gradimento” coi mattacchioni Arbore e Boncompagni). King permette loro in quest’occasione, intanto che hanno cambiato nome e sono passati a quartetto accogliendo nelle loro file il cantautore Graham Gouldman, di cimentarsi nella lunga distanza e di regalare così a tutti noi una carriera per metà (anni ’70, poi amen) magnifica.
Tutti e quattro i componenti del gruppo sanno cantare e comporre e sono tutti polistrumentisti. I loro punti di riferimento possono dirsi Beatles, Beach Boys, Zappa(!), il Music Hall, la Bonzo Dog Band. Sperimentano cogli strumenti, fan loro quella tecnica di rallentare o velocizzare lo scorrimento del nastro in fase di registrazione sdoganata dai Beatles, per avere vocine o vocione alterate nel mix finale. Del resto possedevano uno studio per conto prorio, di livello professionale, quindi avevano tutto il tempo di cesellare all’infinito le loro idee ed ispirazioni.
10cc è quindi l’epitome di band art rock, definizione che qualcuno conierà solo in seguito; similmente a progressive, parola che negli anni settanta non circolava assolutamente. Ma definirei il genere con maggior proprietà art pop, ovvero musiche fintamente sciocche ed invece geniali, un po’ deboli nella ritmica (i 10cc non posseggono il groove deciso, di “stomaco” degli autentici gruppi rock) ma incredibilmente ricche nei cantati e nelle progressioni armoniche.
Lì per lì, a sentirli distrattamente, tipo dentro un ascensore o un supermercato, i nostri potrebbero essere scambiati per degli Abba senza donne in formazione: ovviamente sono molto di più! Bisogna tendere l’orecchio, ascoltare più volte, scoprire una per una tutte le finezze, le stranezze, la qualità melodica, l’applicazione compunta nota per nota e verso per verso. Si, perché anche i testi sono uno spasso, impudenti e variopinti quanto le musiche e saper tradurre l’inglese costituisce un vero valore aggiunto, nel caso dei 10cc.
“Rubber Bullets” ad esempio, la più nota dell’album, racconta di una festa in una... prigione: i presenti fanno un po’ troppo casino, c’è diversa gente ubriaca, il direttore del carcere chiama la polizia e il sergente Baker ordina ai suoi di caricare i fucili con Proiettili di Gomma… La canzoncina è uno shuffle sostenuto e festoso e vi cantano in tre, a turno: Lol Creme comincia con il timbro reso effeminato dal gioco dei nastri rallentati, Graham Gouldman interviene ogni tanto con inserti al contrario stirati verso il cavernoso in stile Zappa, nel ritornello, e poi nel ponte Kevin Godley sfodera il suo falsetto sognante. Le chitarre si adeguano, con un suono fuzzoso e petulante.
“Johnny Don’t Do It” viaggia in stile doo woop e a tempo di shuffle. Racconta con la massima nonchalance di un tizio, un diciassettenne, che ruba una bici da un garage non accorgendosi che non le funzionano i freni. Poi si carica dietro la fidanzata e prende una discesa… Finisce male per tutti e due, contro un camion e nella strofa finale viene fatto appello ad eventuali testimoni di contattare il distretto di polizia locale! Ora Johnny e la sua Francine sono con gli angeli…
“Sand in My Face”, pure a mezzo di parti “rappate” ante litteram, descrive il problema di un tale che si fa fregare la ragazza da un bagnino, grosso e bello, e si prende pure la Sabbia in Faccia quando tenta di riprendersela. Ma il tempo passa, il bagnino è andato in disgrazia e chissà dov’è ora, in ogni caso lui è riuscito a restituirgli la sabbia negli occhi, nel naso, nelle orecchie e soprattutto la ragazza è di nuovo con lui.
“Speed Kills” è un rock blues che però odora anche di Beach Boys, con cori lussureggianti e basso creativo, assolo di synth, bordate di sintetizzatori dappertutto, mischiate a chitarre. Stesso gusto Beach Boys per “The Dean and I”, cantata da Godley che sarebbe poi il batterista.
“Ships Don’t Disappear in the Night (Do They?)”, spassosa sin dal titolo e bizzarra in tutto, raccomanda di non avere paura quando il tavolo trema, la propria ombra sussulta, e di non mettersi a pensare a… Vincent Price (attore inglese dalla voce profonda, specializzato in horror). E’ una specie di piccolo musical, con diversi cambi di ritmo, la più teatrale di tutte ed antipasto a ciò che verrà ancor di più bizzarro nei loro album successivi.
La spassosa “The Hospital Song” descrive l’angoscia di un tizio che giace, tutto sudato, in un letto d’ospedale attendendo di essere operato. Ed è un vero sollievo per lui veder arrivare l’anestesista che con ago e cannula procede a mandarlo nel mondo dei sogni. E’ pure incazzato coi parenti che non vengono a trovarlo, e promette una volta ristabilito di "pisciare loro addosso come i temporali ad Aprile”, testuale!
La mia preferita è “Fresh Air for my Mama”: bellissima, melodia raffinata finché non arrivano i falsetti. Allora si raddrizza e si rockizza specie quando arriva la parte cantata da Eric Stewart, il chitarrista principale. Invece “Headline Hustler” ricorda vagamente una delle melodie di Burt Bacharach ma poi devia, si riempie di percussioni, dà un colpetto finale di slide gisto per chiudere l'album con un suono diverso.
Album verboso, che procede a piccoli tocchi, pennellate di chitarra, cori e controcori, pianoforti e sintetizzatori, cambi di tempo. Il tutto ha come risultante una musica “leggera”, leggerissima, eppure genialmente stravagante. Proprio un simbolo gaudioso di cosa girava in quegli anni d’oro per il rock, di quanto era diversificata la proposta.
10cc veramente unici; e terranno botta, migliorandosi e affinandosi, per altri quattro, cinque album! Prima di svaccare un tantino, anzi parecchio.
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