Il crepuscolo dei 10cc si realizza malinconicamente con quest’opera finale risalente al 1995 e dalla copertina stilosa, vagamente alla Salvador D’Alì.

Il gruppo, formatosi nel 1970, si era diviso in due tronconi nel 1976 continuando comunque a fare bene per un certo tempo; un serio incidente stradale occorso al chitarrista Eric Stewart a fine decennio aveva poi messo tutto in sospensione per un certo tempo.

La ripresa di carriera aveva sortito un terzetto di album ben modesti (rispetto ai precedenti) e a metà anni ottanta i 10cc erano ufficialmente sbandati. Una nuova ricompattazione ad inizio anni novanta, col richiamo dei due originali membri andati via nel ’76 e comunque con ruoli ben marginali rispetto agli inizi, non aveva cavato un ragno dal buco.

Senza contratto, sembrava a quel punto finita per sempre per i 10cc invece un’etichetta nipponica (in Giappone non si butta via niente del rock anglosassone, la gloria da quelle parti rimane imperitura e la riconoscenza eterna) finanziò loro quest’opera. Ma la situazione era fortemente compromessa, i due factotum Graham Gouldman ed Eric Stewart a quel punto operativi da due diversi paesi, uno a Londra l’altro in Francia. Manco s’incontrarono quindi, facendo tutto separatamente.

Quindi quest’album si può vedere come un mezzo “solo” di Stewart registrato in Francia mischiato con l’altra metà a cura di Gouldman e realizzata in Inghilterra; due mezze opere soliste avvinte insieme, con un’unica eccezione che però peggiora le cose: il comune rifacimento “acustico” del mega-hit e capolavoro di carriera “I’m Not in Love”, piazzato in fondo alla scaletta, secondo me su precisa richiesta/ricatto dei discografici nipponici.

“Acustico” perché sferragliano un paio di chitarrine al posto dell’avvolgente piano elettrico dell’originale. Ma l’irritazione viene dal fatto che vengono riesumati quei loop di sontuose, ricchissime voci a coro che nel 1974, meticolosamente realizzate una per una in pezzi di nastro e poi laboriosamente montate insieme, erano andate a costituire uno dei più incredibili missaggi di ogni tempo. Con quei loop a nastro così caratteristici e dominanti nell’arrangiamento, la canzone suona rimanendo sostanzialmente la stessa, rivelandosi perciò inutile, pleonastica.

Per il resto, cioè l’altra dozzina di brani presenti (più o meno, a seconda del paese di pubblicazione del disco), non ve n’è uno di veramente memorabile. Sono canzoni che scorrono via garbate e professionali ma senza attecchire. I testi sono spiritosi ma non così efficacemente surreali come succedeva una volta con loro. Vi suonano ospiti anche illustri, Paul McCartney ad esempio, amico personale di Stewart il quale aveva collaborato in parecchi album dell’ex-Beatle negli anni ottanta; ma mancano le melodie geniali, le estrose successioni di accordi, le stramberie artistiche e testuali che avevano elevato e singolarizzato il ruolo di questo gruppo nel panorama pop rock internazionale.

Solo per completisti, curiosi e grandi affezionati ai 10 Centimetri Cubi.

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