La bella e vistosa copertina, di puro design, annuncia un disco piuttosto anni ottanta dei 38 special, il settimo di carriera. Nel senso che sin lì si erano dimostrati refrattari a qualsiasi infiltrazione elettronica, danzereccia, heavy metal, accontentandosi di un minimo di ruffianeria nei ritornelli, in realtà più un pregio che un difetto a ben vedere.
Stavolta però (siamo nel 1986) il nobile scranno del rock trascinante con compromessi minimi, sul quale si erano assisi sin dal terzo album del 1979, scricchiola alquanto. Il loro hard rotondo, rotondissimo (che prende i colori sudisti quando al microfono evoluisce il frontman Donnie Van Zant e poi se li dimentica quando arriva a comporre e cantare quell’altro, il chitarrista Don Barnes), in quest’occasione piega decisamente verso una banalizzazione, una poppizzazione, una commercializzazione della proposta, sovente semplicistica nelle melodie e sguarnita della feconda dote di assoli chitarristici sin lì esibita. E poi quei rullanti col gated reverb, quelle ritmiche rigide senza più groove… che disastro gli anni ottanta in questo, non solo per loro!
Il frontman aggiunto Don Barnes, agli inizi solamente chitarrista e corista, canta da solista su ben sette episodi fra cui i primi tre in scaletta, enfatizzando un’indubbia scalata delle gerarchie interne alla band. Al resto dei brani ci pensa il collega Donnie Van Zant, il cui timbro di voce rimembra in diversi aspetti quello del compianto fratellone Ronnie, morto nell’incidente aereo del 1977 che decimò i Lynyrd Skynyrd. Per dire, lo ricorda molto di più del terzo fratello Johnny, quello che poi ha effettivamente preso il posto del primogenito negli Skynyrd stessi da fine anni ottanta ad oggi. Però Donnie non ha quell’autorità, quel magnetismo, quell’aura da capo ghenga, quella… pericolosità! E’ un onesto country blues rocker, allegro e solare. Ma qui è quasi irriconoscibile: lo fanno cantare forzato, urlato, quando invece il suo giusto stile è ben più appoggiato e swingante: stronzate tipiche di quegli anni.
I ritmi perciò stavolta si ammollano ed i cantati si addolciscono, talvolta semplicistici; le ritmiche si irrigidiscono, il bel “tiro” all’americana va a farsi benedire ma non è tutta colpa loro… è la “moda” del tempo, gli stupidi sono i discografici e i produttori. Chi non ha vissuto gli anni ottanta lo può solo immaginare, ma si era persa ogni assennatezza in merito al suono e alle partiture di una batteria. Qui poi produce Keith Olsen, uno che con i suoi suoni ed arrangiamenti potenti ma asettici e freddi ha rovinato tantissimi dischi.
Si salva dal mazzo delle nove canzoni “Like No Other Night” per il coinvolgente riff stoppato, specialità della casa, che va a sorreggere una bella frase di canto. Peccato che poi tutto sfoci in un ritornello poco ficcante… comunque resta un buon pezzo. Il resto non va bene, non da loro.
Ma si riprenderanno, almeno parzialmente. Seguiranno infatti due o tre album assai migliori di questo, che rappresenta forse il nadir della loro produzione. Approcciarli da questi solchi rischia di essere una scelta controproducente, per chi ancora non li conosce.
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