Nel 1979 presidente degli Stati Uniti era il mansueto e ragionevole Jimmy Carter. Una delle rogne che dovette grattarsi fu quella successa a marzo di quell’anno: un incidente ad uno dei reattori della centrale nucleare di Rhode Island, in Pennsylvania. Rispetto a Chernobyl una bazzecola, ma comunque un fatto gravissimo.

Quattro cantautori ambientalisti vale a dire Jackson Browne, Bonnie Raitt, Graham Nash e John Hall, si diedero da fare organizzando una quattro giorni di concerti di protesta antinucleare al Madison Square Garden di New York, coinvolgendo un sacco di altri nomi più o meno importanti, più o meno sulla cresta dell’onda al tempo. Nelle quattro date, spalmate tra il 19 e il 23 di settembre, si avvicendarono e sporadicamente si riunirono sul palco per qualche numero in comune i seguenti artisti:

_Doobie Brothers

_Bonnie Raitt

_John Hall

_James Taylor

_Carly Simon

_Jackson Browne

_Nicolette Larson

_Ry Cooder

_Sweet Honey in the Rock

_Gil Scott Heron

_Jesse Colin Young

_Raydio

_Chaka Khan

_Poco

_Tom Petty & the Heartbreakers

_Bruce Springsteen & the E Street Band

_Crosby Stills & Nash

Le cose vennero fatte per bene… si girò un film che poi uscì a metà 1980 e si pubblicò un album triplo che invece uscì quasi subito, a fine 1979, e più in là anche nella versione digitale, limitata a due cd.

Curioso che un prodotto di protesta civile, perché tale è, sia farcito di musica… innocua, di artisti bravissimi ma tutto meno che “urticanti”, compreso il più fortunato ed iconico di tutti i presenti, il futuro miliardario Springsteen che in questi solchi fa la figura del rocchettaro furioso, confronto agli altri. Il paio di concerti (in due diverse giornate) tenuti dal boss in questa occasione sono addirittura usciti, molti anni dopo, in versione completa sia su disco che in video. Quindi il socialdemocratico Bruce è quello che alla fine ha tirato su più soldi dalla faccenda. Per se, non per la denuclearizzazione.

Normale invece che, a valle di tale risonante iniziativa… non sia cambiato un tubo. Le centrali atomiche lì son rimaste, e a questo gruppo di attivisti non siano perdurati altro che i loro sacrosanti ideali, come succede un po’ in tutto il mondo, specie da noi.

Ma passiamo alla musica in quanto tale: la schiera di eccellenti brani pop rock è guidata dai Doobie Brothers, al tempo nel pieno della loro “fase Michael McDonald”, ovvero funky rhythm&blues di gran classe ma di altrettanta ruffianeria, specie nel ricordo delle sanguigne e galoppanti performance rock blues che li accompagnavano quando a guidarli c’era ancora il potente Tom Johnston (poi per fortuna rimessosi in salute e reintegrato). Sul disco rimangono immortalate “Depending on You” e “Takin’ It to the Streets” dal proverbiale, scolpito riff di pianoforte.

Impeccabili i Poco con “Heart of the Night”, una semi ballata soul country cesellata dalla preziosa steel guitar di Rusty Young e dal sassofono contralto. Erano i loro anni (pochi) di grande successo ed in questa ensemble di artisti di lungo e lunghissimo corso fanno un po’ la figura che faranno, che so, Cindy Lauper e Kim Carnes qualche anno dopo in “We Are the World”, il pappone di beneficienza contro la fame in Africa; purtroppo tuttora in essere anche questa, come le centrali nucleari.

Mi piace come si muove sul palco James Taylor, che con l’allora moglie Carly Simon e l’amico attivista Graham Nash intona una corale “The Times They Are A-Changin’”, dando due piste come prevedibile all’originale del menestrello Dylan. Taylor sul disco appare, da solo o con la bella Carly a fianco, in altre tre occasioni, piuttosto in forma e dominante in questo contesto californiano soft.

Il migliore però è Tom Petty. Dritto, schietto e diretto, intona una cover inflazionata di Solomon Burke “Cry to Me” (pure Iva Zanicchi vi si era cimentata) e la fa sua a cagione di quel popò di gruppo che si ritrova, gli eccellenti Heartbreakers. Inaffondabili d’altro canto i CSN, che in quegli ultimi anni settanta stavano vivendo un’ottimo rilancio grazie alle perle contenute nell’album del ’77 intitolato proprio con il loro acronimo.

Ci si potrebbe domandare a questo punto: ma chi cacchio è John Hall? In effetti è l’anello debole del quartetto di promotori della kermesse, ma solo dal punto di vista musicale perché da quello ideologico e organizzativo le cose si ribaltano. Il tipo infatti la pianterà presto di fare il cantautore e si darà alla carriera politica, diventando negli anni duemila Rappresentante al Congresso degli Stati Uniti.

Tutto qui, niente di trascendentale, buona musica socialdemocratica e vagamente radical chic, impotente come al solito nei confronti di chi sta nelle stanze del potere. Una specie di concerto del primo maggio in salsa yankee, certo musicalmente molto più pregnante delle nostre piatte kermesse in Piazza San Giovanni a Roma, farcite di giovani “musicisti” preferibilmente pugliesi: pastasciuttari sovrappeso che blaterano litanie interminabili, parole in libertà sopra lo stesso groove(?) di sempre, portato avanti per minuti, senza variazioni. Una non-musica che non smette di assillarci.

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