Questa storia di un tempo che non c’è più comincia ad un casello autostradale della mia città di allora. Offro un passaggio fin lì, con la cinquecento di decima mano comprata con due soldi insieme agli altri miei compagni d’appartamento, ad una mia amica neanche diciannovenne e bonissima. È in rotta coi suoi e ha preso la decisione di andarsene da casa, fare autostop fino a Parigi e farsi ospitare da Felix Guattari, ovvero da qualcuno dei suoi amici/adepti. Il political-semiologo psico-filosofo al tempo aveva un debole per i giovani italiani del “Movimento”, in attiva e clamorosa protesta contro autorità e leggi governative, ed era ben disposto ad accogliere qualsiasi eventuale transfuga.

Ci abbracciamo, le auguro buona fortuna e la lascio ad autostoppare. Per qualche mese so poco di lei, solamente che “va tutto bene” tramite una sua amica che ha ricevuto un paio di sue telefonate. Ma un bel giorno me la rivedo suonare alla porta del nostro appartamentino studentesco, insieme a due altre ragazze: sono parigine, si sono organizzate per accompagnarla nel suo ritorno in Italia, lei ha raccontato loro che aveva amici in grado di ospitarle…

E le ospitiamo, le portiamo in giro per la città, le facciamo immergere nella quotidianità studentesca degli anni settanta, nelle voluttà ed usanze di una bella città italiana piena di personalità e in quel momento molto cool. Dopo qualche giorno ci rivelano la loro intenzione di visitare Roma; mi attivo allora con una mia amica che abita là, in centro, a San Giovanni, e stavolta è a loro due che do uno strappo fino al casello, direzione Roma.

Vengo poi a sapere da quella mia amica romana che sono state una settimana da lei, ben accolte e carreggiate a destra e sinistra e soddisfatte… per poi passare a Napoli, ospiti di un amico di lei!… Insomma, una catena di Sant’Antonio di fraterna accoglienza.

Com’è giusto che sia, passati svariati mesi giunge l’ora del contraccambio: stavolta siamo noi, in quattro, a chiedere ospitalità a Parigi per i giorni di festa a cavallo della fine di quell’anno. Ci organizziamo dentro una Renault R4 che, poveretta, deve trasportare anche due chitarre, bonghetti e un cilindro contenente stampe molto belle. L’idea è di ripagarci la vacanza piazzandoci in qualche stazione di metropolitana, coi tre di noi musicisti a suonare e cantare ed il quarto, non musicista, incaricato di esporre e vendere le suddette stampe.

L’arrivo nella capitale francese è semplicemente spettacolare: avvertiamo il giorno prima che saremo lì in serata, partiamo all’alba ma alla galleria del Monte Bianco uno sciopero a singhiozzo dei casellanti ci blocca lì per sei ore. Riusciamo ad avvertire da una cabina telefonica che giungeremo in loco in piena notte… A quel punto i francesi ci danno istruzioni telefoniche precise per cavarcela da soli, senza di loro.

E così succede: planiamo su Parigi che son le quattro del mattino, ci aggiriamo con facilità per le strade vuote e i semafori tutti lampeggianti fino all’indirizzo indicatoci, parcheggiamo. Via e numero corrispondono ad un androne buio… ma appena riusciamo ad accendere la luce vediamo un foglietto appiccicato al muro con scritto PIER e disegnata una freccia. Ci siamo!

Saliamo la scala B indicataci e al primo piano individuiamo l’interno giusto. La chiave dovrebbe essere sotto lo zerbino… c’è! L’infiliamo nella toppa… gira docilmente e apre. Tastiamo il muro, troviamo l’interruttore e facciamo luce: cazzo! Un soggiorno pieno di sculture, giusto il posto per un tavolo e sei sedie e il resto della stanza è tutto occupato da statue più o meno rifinite, più o meno grezze. C’è poi un cucinino da un lato e un bagno da un altro. A giorno sul living incombono altri due piani d’appartamento, destinati alle camere ed ai loro servizi, quindi mezza stanza è sotto soppalco mentre l’altra mezza ha il soffitto/tetto alto sette, otto metri. Il tutto illuminato di giorno da un finestrone gigante sul lato di parete alta. In un angolo vi è uno stereo con una pila di dischi accanto; presente tutta la discografia di Cat Stevens, noto subito.

Se questa non è una botta bohemien! Teleguidati dall’Italia fino ad uno “scannatoio” parigino, dove si scolpisce e plausibilmente si tromba felicemente, tutto ciò alle quattro del mattino! Son di quei momenti che restano, indelebili. Ma restano per un po’ anche le piattole addosso al pube di uno dei miei amici, irresponsabilmente coricatosi senza mutande per fare il figo. Lo scopre e ce lo dice qualche giorno dopo essere tornati in Italia: i soliti francesi zozzoni.

Sempre zozzoni già dal giorno dopo l’arrivo: viene a darci il benvenuto una nutrita compagnia, le due ragazze conosciute e vezzeggiate in Italia e tanti altri loro amici mai visti. Uno di essi, appena entrato, va risoluto verso il lavello in cucina, tira su la zampa, la infila sotto il rubinetto e si sciacqua via dai camperos una merda pestata di fresco. Sopra i nostri piatti e stoviglie messi lì in attesa di essere lavati. Che popolo di merda! Allibiti, introiettiamo.

Fra schitarrate alla metro di Chatelet, girovagate turistiche, chiacchiere e mangiate e ascolto di Cat Stevens in casa, arriva presto la sera di San Silvestro. I francesi, dopo quella prima serata di accoglienza nella garçonnière, non si sono più visti ma eccoli ad invitarci al loro veglione. Ci danno l’indirizzo di un… supermercato, che si chiama Klein. Occupa un intero palazzo Belle Epoque… quasi intero perché i primi cinque piani sono del supermercato ma il sesto ed ultimo è l’attico di residenza della famiglia Klein: ‘sti ebrei, francesi o cosa, sempre ben piazzati!

La ragazza Klein padrona di casa ci accoglie nel super attico: stringiamo mani, parliamo inglese oppure italiano quando possibile (ci sono altri conterranei… in tutto saremo una decina di italiani su un centinaio di persone). Addosso a una parete c’è da mangiare ogni ben di… dio? Prevalentemente israeliano, altrimenti vietnamita.

Mi scappa da pisciare e mi faccio indicare un bagno. Entro e do luce ad uno stanzone sei metri per sei con appoggiato a una parete un baldacchino gigante rialzato a tre gradini, con al centro un vascone blu. Giro intorno ad esso ma non trovo non dico il bidè, ma neanche il cesso. Ad un’ispezione più accurata individuo una porticina che dà accesso a un loculo delle dimensioni di un mezzo ascensore, foderato accuratamente di moquette azzurra dal soffitto al pavimento e fornito di sole due sovrastrutture: una lampada e un cesso. Ma che cazzo! Lì fuori quaranta metri quadri, per cagare invece mezzo metro, al chiuso senza ricircolo d’aria e con la moquette! Molto pittoresco.

Passa la mezzanotte e subito dopo gli abbracci e i baci succede l’inenarrabile: la Klein con un telecomando fa scorrere due pareti della stanza, la quale da grande diventa immensa, qualcosa tipo dodici metri per dieci. Minchia! Guardiamo inebetiti lo scorrere dei pannelli ed i nuovi e più lontani fondali, chiedendoci il perché ma non immaginando la mossa successiva: parte la musica di questo cazzo di disco, si, “Saturday Night Fever” e sulle prime note di “Stayin’ Alive” cinquanta, sessanta, settanta francesi e simili (le ragazze tutte nessuna esclusa, i maschi uno si ed uno no) si fiondano al centro del salone, si organizzano all’istante in quattro o cinque file e partono a dimenarsi in collaudata sincronia sulle mosse di Travolta nel film, una per una, ora avanti, ora indietro, ora a destra e ora a sinistra... altro che l’Alligalli dei nostri vecchi in balera!.

Il mio istinto di musicista, musicologo, rocchettaro, vibra e rosica di disagio e timore. È questa la musica che sta provando seriamente a spodestare il mio rock, non l’effimero punk di quei quattro somari, pompato chissà perché ma che in definitiva non vende un cacchio. Questi invece fanno conquiste, e con loro Barry White, Donna Summer, Earth Wind and Fire, KC and Sunshine Band, Gloria Gaynor… Ed io che mi beo di Supertramp, Steely Dan, Blue Oyster Cult, Boston, Cheap Trick, Toto, 10cc… quelli che considero il meglio di quegli ultimi anni settanta, non so stare davanti a quella potente dimostrazione di stupida conformazione al branco.

Mi stanno sullo stomaco queste musiche ma soprattutto il film da esse sostenuto, certamente non l’unico e neanche il maggiore responsabile di una sottocultura legata all’effimero e all’apparire, ostentare, fingere, ma insomma la Febbre del Sabato Sera è un ottimo punto di partenza per mettere a fuoco e rimanere ben amareggiati e orripilati da quel fenomeno cosiddetto del riflusso, che di lì a poco invase una buona fetta degli anni ottanta.

La discoteca vista come soluzione allo squallore, a tutto ciò che non funziona di una vita squallida e senza sbocchi, mi sembra una filosofia di un negativo abissale. Qui viene propagandata la soluzione ai problemi stordendosi fra contorsioni e pose da duri. Puah! Mi stanno sullo stomaco le discoteche, il personaggio e la recitazione di quel cane di Travolta (poi, maturando, diventato ottimo, carismatico attore) e pure il falsetto di Barry Gibb, ergo questo è uno degli assoluti best seller della storia della musica a cui sono più idiosincratico. Ha veramente sdoganato un certo modo di affrontare (male) la vita ad un sacco di gente. La sua importanza storica non costituisce un’attenuante per me, anzi.

Carico i commenti... con calma