Risalire agli stretti sentieri da cui hanno avuto origine le autostrade del rock, le strade cittadine illuminate dai lampioni del jazz, le piste sterrate polverose del country, insomma le vie infinite che ha preso nel secolo scorso la musica americana, fino a diventare la più influente, e a suo modo prepotente, del mondo... una bella impresa, faticosa e piena di insidie.
Si fa presto a dire "musica americana": lo dice anche l'etichetta di questo Cd, ma che significa ? Mentre da noi in Europa è abbastanza chiara la distinzione tra ciò che è tradizione popolare e ciò che è invece patrimonio musicale "colto", in America più che altrove i loro percorsi si intersecano continuamente, e si rischia davvero di perdersi. Basti pensare che fino alla fine dell'Ottocento il più grande compositore classico "americano" era in realtà un ceco, Antonin Dvorak, noto soprattutto per la sua Sinfonia n° 9 "Dal Nuovo Mondo", ancora oggi magistrale rappresentazione quasi "grafica" dei grandi spazi della vergine, pura America di quei tempi, ma a detta dello stesso Dvorak "musica americana" solo perché composta negli USA, in realtà traboccante di sentimento slavo, che il musicista si era portato senz'altro con sé nel suo produttivo e gratificante soggiorno americano (era venerato e trattato come una star, anche economicamente).
In assenza o quasi di punti di riferimento diventa provvidenziale l'esistenza di Aaron Copland (1900-1990) che come il leggendario suonatore Jones di Lee Masters e di De André "fu sorpreso dai suoi novant'anni" dopo aver dedicato la sua vita a rifondare, con impegno e passione, ciò che non era mai esistito, cioè una tradizione classica veramente americana, tipica come lo sciroppo d'acero e come il burro di arachidi, tanto caro a Giorgio Dabliù Secondo, nostro attuale imperatore. Copland è come una quercia secolare in un bosco ricco e immenso: la sua musica è fatta di grandi spazi, di profondo amore per luoghi ancora incontaminati, percorsi ancora più da carrozze che da automobili, punteggiati di rade, maestose residenze in stile tradizionale, con bassi steccati di legno ed enormi verande aperte su viste a perdita d'occhio... Anche lui passò attraverso una fase "dissonante" e di avanguardia, di forte influenza europea: era quasi una specie di vaccino, all'inizio del Novecento. Poi però dalla fine degli anni '30 in poi decise di "sforzarsi di dire quello che aveva da dire nel modo più semplice possibile" (parole sue) e si reinventò, completamente fuori tempo, una sorta di "impressionismo americano", colorato e paesaggistico, scrivendo alcune suites originariamente destinate a balletti, anche se bisogna fare qualche sforzo di fantasia per associare una qualsiasi danza ai placidi e incantevoli 25 minuti di "Appalachian Spring", che sembrano piuttosto un'ampia visione dall'alto, magari da una mongolfiera per non fare rumore, dell'idilliaco risveglio della natura sulla catena degli Appalacchi, così incredibilmente vicina alla popolatissima East Coast. Il ronzio degli archi ti culla quasi dall'inizio alla fine, il tema principale affiora più volte in tutta la sua forza evocativa, a volte come largo di archi, a volte come fanfara di ottoni, ma sempre immerso nell'ovattato sussurro dell'orchestra, come un lontano canto di gallo che rompe per un attimo il cinguettio uniforme degli uccelli. E' il capolavoro descrittivo di Copland, a tratti degno dell'insuperabile "Largo" dalla citata "Sinfonia dal Nuovo Mondo" di Dvorak.
Le altre suites sono più vicine allo stile della musica da film western (Copland fu anche un prolifico autore di colonne sonore), e non potrebbe essere altrimenti perché sia "Billy The Kid" che "Rodeo" sono ispirate a quel mondo e a quell'epoca. E' musica più festosa e movimentata: a tratti pare di sentire una versione orchestrale della quasi omonima colonna sonora dylaniana, "Pat Garrett & Billy the Kid", ma siccome la suite è del 1938 i conti non tornano: è più verosimile il contrario. Anche in "Billy the Kid" però Copland dà il meglio di sé nella rappresentazione dei grandi spazi aperti, e non a caso il motivo portante e più ispirato si intitola "The Open Prairie" (la prateria aperta): un bel tema più cupo e notturno che western. Così come in "Rodeo" il quadro più convincente si chiama "Corral Nocturne", musica di grande respiro e suggestione, anche se da questa stessa suite è tratto il più noto e scatenato "Hoe-Down", famoso anche per la sua trascrizione rock di Emerson Lake & Palmer (non male) dall'album "Trilogy".
Ma mi accorgo che sta venendo fuori un piccolo romanzo, quindi chiudo consigliando vivamente l'ascolto di Copland a chiunque sia un grande consumatore di musica americana (e un po' tutti lo siamo) e voglia risalire alle sue fonti più classiche. Penso che sarà una gradevole scoperta.
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