Diceva Rossellini che la realtà è lì davanti, pronta per il regista che non ha altro da fare che metterla in scena. Kiarostami, che a Rossellini ci somiglia anche somaticamente, per quel suo faccione sornione sempre nascosto dietro un paio di occhiali scuri, lo sa e i suoi film ne sono un bellissima testimonianza.

Scrive Goffredo Fofi che il cinema, inteso come arte pura, ha in Kiarostami un regista cui affidarsi totalmente, in un'epoca sempre più dominata da criteri di commerciabilità, marketing e, fuor di metafora, imbecillità. Il suo cinema non ha nulla a che vedere con quei polpettoni sentimantal-spiritual-mistico-metafisici di certi autori messicani che pare oggi abbiano l'esclusiva dell'avanguardia nel cinema, ma ha la semplicità e la schiettezza della poesia popolare, nelle mani di un poeta che "popolare" in senso stretto non è, anzi è un regista colto e ipersensibile, esperto (il suo primo lungometraggio è del '70) e smaliziato. Kiarostami fa dunque sua una cifra stilistica impoverita e scarnificata, sottintendendo una profondità mai insondabile ma (quasi) sempre intuibile. Ed ecco che i suoi film, raccontandoci piccole storie, ci spronano cordialmente a interrogarci su tante cose, sulla vita, sulla morte e sulla gamma infinita e ricca di infinite sfumature delle emozioni umane.

Il MacGuffin escogitato da Kiarostami è il quaderno stropicciato e prezioso di Mohamed Reda Nematzadeh, che Ahmed, suo compagno di banco, di ritorno da scuola si accorge di aver preso per sbaglio. A preoccupare è la severità del maestro che ha promesso di espellere chiunque avrebbe beccato senza il proprio quaderno. Qui ha inizio l'odissea del piccolo Ahmed che per il solo desiderio di evitare al compagno una punizione, armato unicamente della bontà del suo intento, sfida un mondo adulto sordo alle sua vocina. La madre non lo ascolta, meccanicamente alterna stese di panni a svogliati allattamenti del neonato fratello, gli ordina questa o quella commissione e esige da lui che completi i suoi esercizi prima di uscire a giocare. C'è poi una nonna sdentata tutta affacendata in inutilità che apre bocca solo per fiochi rimbrotti, miope e fastidiosa come una mosca. Ad Ahmed non resta che fingere di andare a comprare il pane per fuggire alla ricerca della casa del suo amico. Ma di mezzo si mette anche il nonno che, incuriositosi vedendolo correre per strada, lo chiama a sé e, in virtù di una personalissima quanto tradizionale teoria dell'obbedienza, lo manda a comprargli le sigarette. Dribblato anche questo ostacolo si incammina verso il villaggio del suo amico ma quando vi giunge resta intrappolato nel dedalo di viottoli tra i quali raccapezzarsi è impossibile. Ahmed chiede informazioni e chi lo aiuta, sempre che non sia in preda alle proprie meschine preoccupazioni, è sempre vago o fuorviante. Kiarostami si permette anche il lusso di fare un pò il verso a Hitchcock, vestendo un bambino di quel villaggio con gli stessi pantaloni, le stesse scarpe di Mohamed: quando Ahmed lo vede, mentre porta in spalla una finestra di legno (che gli copre il volto) da caricara sul mulo.....

Finalmente un anziano fabbro vetraio si offre di accompagnarlo da Mohamed. Insieme fanno un bel tratto di strada, durante il quale il vecchio non la finisce di indicare al giovane Ahmed tutte le vetrate che ha costruito, si fermano ad una fontana, vicino alla quale il vecchio coglie un fiore che Ahmed ripone tra le pagine del quaderno. Giunto alla casa di Mohamed, Ahmed scopre che è la stessa casa del bambino che portava la finestra di legno sulle spalle, un cugino di Mohamed. Deluso torna a casa. Qui trova un padre silenzioso che invano cerca di sintonizzare una radiolina e la madre che gli offre la cena, che Ahmed, assorto nei suoi pensieri, rifiuta. La madre sembra meno severa e più amorevole, ma il suo è comunque un affetto cieco, insulso, scontatamente materno come quando, premurosa, porta la cena in camera ad Ahmed perchè possa mangiare quando gli sarà venuto appetito. Il mattino dopo l'epilogo è dolceamaro: Ahmed porta il quaderno, con i compiti svolti anche per lui, a Mohamed che aveva gli occhi gonfi di lacrime. E il maestro, controllandolo, lo apre giusto sulla pagina dove è stato riposto il fiore.

Inno alla libertà dell'infanzia e alla purezza dei sentimenti contro la clausura dell'ambiente familiare e della tradizione, contro ogni tentativo di ingabbiamento del futuro nelle forme del passato, e contro anche ogni discorso di pensionamento anticipato della vita, di preoccupazione per quello che accadrà in futuro, in omaggio alla gioia istantanea del presente, "Dov'è la casa del mio amico ?" è un capolavoro disintossicante, spiazzante (perchè se è un capolavoro, allora il 75 % dei capolavori fino ad ora proiettati sono in posizioni di rincalzo), ricco di finezze senza essere sofisticato, ispirato ad una poesia di Sohrab Sepehri, "L'indirizzo" che obbligatoriamente riporto.

Where is the friend’s house?”
Horseman asked by twilight and,
The sky paused.

The passerby presented sands, the branch of light that he had in mouth
And pointed to a poplar tree and said:


Before reaching the tree,
There is a garden alley that is greener than God’s sleep
And in it, love is as blue as the feathers of honesty.
Go to the end of the alley which stops at the back of adolescence.
Then turn to the flower of loneliness,
Two steps short of reaching the flower,
Stay by the fountain of eternal myth of earth
And you feel a transparent fear.
And in the fluid sincerity of the air, you will hear a scratch:
You will see a child
Who has gone up the pine tree, to grab a bird from the nest of light
And you ask him
Where the friend’s house is
.”

Andrebbe visto solo per la prova d'attore del piccolo Babek Ahmed Poor.

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