Mi ritrovo in un perduto luogo, alla fine e all'inizio di tutto.
Quel rifugio antico e abbandonato, ma ancora caldo, accogliente e protettivo come quella volta, non intaccato dai disagi del corpo, dalle ostilità della natura, dalla snervante morsa della “società”.
Quel luogo senza tempo che è stipato, e (quasi) dimenticato, nella zona più recondita della mente.
Spesso ho provato a raggiungerlo, ma invano, troppo distante, troppo diverso.
So che c'è, da qualche parte.

Sono questi suoni, che mi proiettano delicatamente al suo interno.

Impulsi acri.
Flebili gorgoglii.
Brusii onirici.
Melodie indefinite, sospese, vulnerabili.
Colori caldi ma indifferenti, impersonali, puri.
Una nube mantrica avvolge tutto, gentilmente.

La curiosità dell'ignoto serpeggia tra le misteriose, vellutate stanze segrete.
Il "sonno" si fa più profondo, meno rassicurante; più densa e uniforme la materia.
Un sottile equilibrio tra quiete, incerta euforia e paura primordiale vacilla fino a spezzarsi: dall'instabilità alla "stabilità", dal "compromesso" alla radicalità, dal dormiveglia R.E.M. all'abisso interiore:

viaggio nelle oscure gallerie del subconscio, selva lugubre popolata da anime appartenenti a chissà quali altre vite, Meatwork;
Full Soup Head, il pozzo senza fondo in cui cadono perpetuamente elementi indecifrabili provenienti dalle periferie dell'universo neuronale;
giungendo poi a Koterana, l'incontrollato gorgo di estatica follia (individuale), in cui danza, in un circolo senza fine, l'intera titanica e “miserabile” storia umana (universale).

Ma sono i brani fugaci, quegli intimi, malinconici, colorati frammenti semantici fluttuanti ubiquitariamente nella fitta rete grigia, tesori irraggiunti luccicanti sulle fredde spiagge dei confini della percezione, ad accendere la luce, a donare vita all'esperienza.

E infine sento, come se questo posto impossibile debba esistere, da qualche parte, anche nel sensibile, nel tangibile. Forse, è un luogo che ho veramente frequentato, e che mi ha frequentato, prima, ma non prima: prima del prima, prima del tempo. Sì è sicuramente quello… non intaccato dai disagi del corpo, dalle ostilità della natura, e dalla snervante morsa delle società...


Attraverso la meditazione l'album mette in contatto la coscienza razionale con una particolare e limitata ma intensa porzione di infinito che si cela all'interno del nostro finito, esiguo involucro, quella fatta di mutevoli figure amorfe create da impulsi elettrici decodificatori e reinterpretatori della realtà. Siamo il nostro subconscio, non essendolo. Ma lo fa con una precisione e una cura che non credevo possibili.

Tanto è eclettico e fuori di testa, tanto è introverso e quieto come nient'altro al mondo.
Nel continuo gioco di forze tra misticismo folk e psichedelia, il neozelandese Galbraith, come nelle sue opere precedenti (più improntate sul folk e meno sulla psichedelia, ricordanti tremendamente un certo Syd), segue uno stile profondamente introspettivo, facendoci esperire un vero e proprio sogno a occhi aperti: illogico, arcano, enigmatico, febbrile, rilassante, inquietante. Sogno che ha i suoi picchi di tensione ma che ha l'accortezza e la sensibilità di non mutare mai in incubo.

Talmente intimista che sembra si possa arrivare a sfociare nelle criptiche verità genetiche della specie.


Gemme nascoste, piccoli vecchi cofanetti in legno meticolosamente curati, un po' scricchiolanti ma ancora perfettamente funzionanti.
Profumo di pagine antiche di storie mai narrate.
Atmosfera di eternità...


Come onde che si infrangono l'una contro l'altra intersecandosi e sfasandosi, così i differenti pattern di droni di elettronica fanno tra di loro, a volte mantenendosi inquieti, a volte dando il risultato opposto, quasi annullandosi. Accompagnati saltuariamente da una voce infinitamente sommessa e dalle percussioni, che vanno e vengono, come gli archi "elettrici", le cornamuse strappate, le fisarmoniche ammuffite, le chitarre stagionate.
Ciò che è sempre lì, al di sopra di tutto, è quell'essere eterno che, da tale, non può che, infinitamente triste, piangere.

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