C'è una frase di Paolo Rossi, il comico, contenuta in una sua raccolta di monologhi pubblicata oramai più di vent'anni fa, agli inizi degli anni novanta, che dice, 'Il problema non è quando ti fai le seghe a sedici anni, il problema è quando te le fai a trentacinque. Allora vuol dire che sei da solo.'

Il monologo si intitola, 'Quando ero piccolo.' Comincia più o meno così, 'Quando ero piccolo... Quando sono rimasto piccolo.' Alludendo chiaramente alla propria statura, oltre che a quella che intendeva essere una immaturità che voleva significare essere impreparato davanti alle cose della vita. In particolare per quello che riguarda il riuscire a relazionarsi con gli altri. I rapporti con l'altro sesso. Non ne ricordo tutti i contenuti a memoria. L'ultima volta che lo ho letto è stato veramente tanti anni fa e, non lo so, voglio dire, non lo so se allora mi abbia fatto ridere oppure no. Però so che, adesso che ci penso, in fondo quel monologo non voleva veramente fare ridere. O non voleva solo far ridere.

Quando ti fai le seghe a trentacinque anni, io ne ho trentadue quasi trentatré, vuol dire che sei solo e io sono solo o comunque mi sento solo, che poi sarebbe esattamente la stessa cosa perché in fondo è la mia percezione dello stato delle cose a contare davvero. Faccio una vita molto regolare, secondo delle tempistiche che mi sono dovuto imporre per non mandare completamente in puttane la mia vita da ogni punto di vista, ma - voglio dire - in questi schemi non è praticamente contemplata alcuna interazione di tipo sociale. Quasi tutte le notti sogno di essere ancora a scuola, ho un ricordo vivissimo di quel periodo della mia vita, che pure non riesco a considerare positivamente, eppure... Eppure tutto quello che poteva significare qualche cosa sul piano emotivo per quanto mi riguarda è evidentemente in larga parte rimasto lì. Dopo non è successo più niente. Da questo punto di vista almeno. Sì, ovviamente c'è stata una donna e quando la penso in fondo il tipo di sensazioni che provo non è dissimile per quello che riguarda la tristezza e la melanconia. Il senso di infinita solitudine, una solitudine che definirei strutturale, autarchica, oramai autodeterminatasi in ogni suo aspetto ideologico emotivo, affondate le sue radici fin dentro alla parte più remota del mio stomaco.

C'è comunque una differenza tra questa storia d'amore testé menzionata e i miei trascorsi durante quegli anni delle scuole superiori: per quanto con lei alla fine non abbia funzionato; sebbene io la amassi e lei non mi abbia voluto; so che ho provato. Che ho fatto tutto quello che potevo fare. Che ho cercato di andare contro quei limiti cui accennavo. In una maniera goffa, poco coordinata, magari persino patetica. Ma l'ho fatto. Mentre invece. Mentre invece durante quegli anni nove così è stato per lunga parte della mia esistenza in cui mi sono lasciato scorrere tutte le cose addosso. Non mi piace guardarmi indietro, in genere non lo faccio, ma se dovessi farlo, non lo so se dovessi poi arrivare alla conclusione che, 'Non è mai troppo tardi.'

Ne consegue, seguendo le linee del mio ragionamento, che anche durante gli anni della scuola sono stato innamorato di una ragazza. Anzi. Direi che sebbene io non la veda praticamente mai, sono in qualche modo ancora innamorato di questa ragazza. La seguo da lontano. Oggi è una dottoressa e una attivista per la salvaguardia dell'ambiente dove è nata, cresciuta e vive tuttora, una cittadina in provincia di Napoli e in cui ricopre la carica di vice-sindaco. È una ragazza terribilmente in gamba e intelligente, molto più di me ovviamente (lo è sempre stata), oltre che molto bella. Chiaramente è sentimentalmente impegnata.

Non nascondo di avere provato negli anni cercato diverse volte di entrare in contatto con lei e rivelarle quello che sentivo e che in qualche modo sento di provare in maniera così prepotente ancora oggi. Dopo un primo riscontro negativo, per un periodo abbiamo avuto una corrispondenza. Poi è finito tutto. Nel senso che non mi ha più risposto. Intanto tutta la mia vita andava e va a rotoli e mi sento un totale fallito. E allora penso due cose. Penso che è normale se lei non mi degni di alcuna considerazione. A parte il fatto che non faccio minimamente parte della sua vita. Perché dovrebbe? Quale motivazione. Al massimo potrei farle solo pena. La seconda è che oggettivamente, forse, sicuramente avrei dovuto fare qualche cosa quando potevo. Ma ero solo un ragazzo e mi viene più facile prendermela con quello che sono oggi che con quello che era uno dei tanti ragazzini sempre incazzati con il mondo.

Naturalmente, per quanto tutta la rappresentazione dello stato delle cose possa apparire drammatica, e c'è sicuramente una componente drammatica, persino tragica, in queste mie considerazioni, sarebbe anche fallace considerare la mia situazione come estrema, personale e come qualcosa che riguardi necessariamente uno 'schema' fisso. Quello che voglio dire è che quello rappresentato, al di là del mio effettivo apprezzamento per la persona che ho menzionato, costituisce una specie di 'tranello'. Un trabocchetto. Rifugiarsi in una dimensione mai esistita o comunque mai vissuta nel tempo passato per cercare di sfuggire all'unica cosa che conti e esista veramente: il tempo presente. Ne consegue che dunque nulla di tutto quello che io abbia scritto sia per forza di cose 'personale', che senso avrebbe avuto parlarne altrimenti, è invece un aspetto di una problematica sociale più ampia che riguarda la solitudine e l'insoddisfazione per se stessi e la propria esistenza, spesso strettamente correlate alla difficoltà nell'interagire con gli altri. Un tema che sembrerebbe leggero, ma che invece è molto delicato e ci coinvolge tutti. Non esistono del resto in un certo senso tematiche che siano 'leggeri' oppure irrilevanti. Tutto quello che in qualche maniera rigaurda noi stessi e le relazioni tra le persone ha importanza e merita di essere oggetto di considerazioni.

I fratelli Duplass, che hanno variatamente dimostrato negli anni una particolare e spiccata sensibilità artistica nell'affrontare tematiche psicologiche e sociali del questo tipo, inaugurano la loro partnership con Netflix con questo film (di cui sono i produttori esecutivi) diretto dal regista Alex Lehmann e scritto e interpretato da Mark Duplass.

Presentato al Festival cinematografico internazionale di Toronto lo scorso settembre e uscito nelle sale cinematografiche USA in ottobre, il film si intitola, 'Blue Jay', e si può considerare per i suoi contenuti, tipicamente drammatici e per la sua estetica e il suo stile, quello che è un film tipico delle produzioni dei due fratelli Mark e Jay Duplass. Come tale, 'Blue Jay', va quindi a tutti gli effetti annoverato come un altro capitolo, secondo me importante (come sottovalutare ai fini della diffusione delle opere del genere, la partnership con Netflix) della storia del movimento 'Mumblecore' e di cui poi i fratelli Duplass sono stati all'inizio dello scorso decennio tra gli iniziatori.

Senza dilungarsi troppo. Che cos'è il 'Mumblecore', movimento nato e diffusosi negli USA a partire dal 2000, quali sono le sue caratteristiche principali. Sostanzialmente tre: intanto la produzione avviene con un budget molto limitato. Questo in principio anche per evidenti ragioni economiche, nascendo nella sostanza come manifestazioni e episodi di cinema completamente indipendente. Pure se poi nel tempo, anche quando il genere ha cominciato a ricevere attenzioni e sono insomma cominciati a girare un po' di soldi, non ci si è discostati da questo principio di base e questo secondo me anche per mantenere una certa spontaneità da parte degli artisti coinvolti. Come se questi dovessero tutti scegliere di darsi volontariamente all'opera in questione: in questo senso, ne consegue, il loro contributo sul piano emozionale (affatto non secondario in tutti i casi e in particolare per quello che riguarda film di questo tipo, che si basano sostanzialmente solo su questo!), è o almeno dovrebbe essere maggiore. La seconda caratteristica è quindi la totale assenza di effetti speciali o di qualsiasi 'trucchetto' in ogni senso possibile. La regia è generalmente essenziale: in questo senso persino la scelta, secondo me azzeccata, del bianco e nero per 'Blue Jay' appare essere un vezzo. Quasi un eccesso oppure una 'posa'. Anche se possiamo ricercarci una volontà ideologica nel fatto che l'intera opera sebbene ambientata nel presente, trasporta i due protagonisti e conseguentemente gli spettatori in una specie di viaggio nel passato e nei ricordi dove spesso tutte le cose possono apparire sfumate e di un colore indefinito. Terzo punto, quello più importante, la trama ha generalmente contenuti drammatici e si basa interamente sull'interazione tra i diversi personaggi (quasi sempre tra i trenta e i quarant'anni) che pure di solito sono di numero limitato.

'Blue Jay' risponde a tutti i requisiti del genere. La storia infatti, che ho probabilmente fatto intuire nel mio lungo preambolo, riguarda quella che è una ex coppia di fidanzati ai tempi della scuola, Jim e Amanda, e che per puro caso si reincontrano in quello che è il piccolo paese dove abitavano da ragazzi e dove sono entrambi dovuti ritornare per circostanze diverse e a distanza di venti anni dall'ultima volta che si sono visti. L'incontro è praticamente l'unico vero happening del film, che praticamente segue tutto quello che accade nelle diverse ore che seguiranno e in cui i due, che hanno avuto due esistenze radicalmente differenti, si confronteranno sulla loro vita presente e passata. Un incontro che tuttavia non è e forse non può essere una reimpatriata e neppure una riconciliazione o un nuovo inizio, ma forse solo più semplicemente un dolce tuffo nel passato e lo scontrarsi con un presente che invece per Amanda (Sarah Paulson) appare pieno di incognite e misteri da scoprire, mentre per Jim questo costituisce una realtà invece difficile e che una nuova separazione in una specie di 'lungo addio', per citare Mr Raymond Chandler, non può che contribuire a rendere ancora più amara letteralmente insopportabile.

Facile pensare, parlando di 'incontro' a Francesco Guccini, ma non definirei allo stesso modo poetici i contenuti di questo film. Che sono invece crudi e quando cercano di essere poetici, non vogliono esserlo in modo alto, ma citando 'No More I Love You' di Annie Lennox in una specie di commemorazione di un ballo di fine anno scolastico e/oppure quelli che sono i tanti sogni e giochi pure banali tra una coppia di ragazzi. Ma il finale, non svelato, si apre del resto a diverse considerazioni e punti di vista. Il regista non mette nessun punto e preferisce lasciare lo spettatore a cullarsi in quelli che poi a questo punto sono i SUOI ricordi mentre scorrono i titoli di coda con in sottofondo la voce del più grande scrittore di canzoni contemporaneo, Bill Callahan.

Un film essenziale, come vuole la scuola del genere, e dove la presenza di un terzo personaggio, che poi sarebbe l'anziano gestore di un negozio di alcolici che i due frequentavano da ragazzi e che li riconosce e li vuole riconoscere ancora come quella coppia spensierata di ragazzi di venti anni prima, una figura apparentemente irrilevante eppure chiaramente rivelatrice e nella sua semplicità capace di lanciare una specie di input, una lenza con cui prendere all'amo i due protagonisti, costituisce una piccola variante, come una specie di scossa elettrica per testare, quasi volere misurare le reazioni del pubblico nell'avvertire una leggera deviazione dalla formula unica del dialogo tra i due e dare loro un segnale concreto che stia succedendo qualcosa. Come se questa terza persona fosse una specie di teste fondamentale nel processo in cui si calano lentamente, come assuefatti, Jim e Amanda.

'Blue Jay' è un film dai contenuti solo apparentemente leggeri ma invero per forza drammatici come è drammatica la solitudine e quando cerchiamo di contrastarla attaccandoci disperatamente a qualche cosa che purtroppo è passata e adesso non c'è più e nella totale incapacità di guardare attraverso la fitta nebbia del tempo presente e futuro. Quello del cinema Duplass è un film dai contenuti 'semplici', quei piccoli problemi che abbiamo tutti quanti e che molti hanno la presunzione di sottovalutare o di non avere. È un cinema fatto solo di idee e dagli uomini per gli uomini. Questo lo rende per forza di cose qualche cosa di veramente autentico e importante.

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