Questo musicista non lo conosce quasi nessuno dalle nostre parti: è italo canadese (nato in un paese del Lazio), cantante compositore e chitarrista pop. Oggi è un bell’omo anzianotto, imbolsito e canuto, ma negli anni ottanta era un figo. Alcuni suoi album che mi è capitato di incrociare sono insipidi e trascurabili, ma questo ancor giovanile “Quick…” del 1990 (terzo lavoro in carriera) invece funziona alla grande come prodotto leggero e smanceroso ma di classe, un poco jazz un poco soul, un tanto funky e un tanto elettronico, ruffiano ma musicalmente ricco ed emotivamente appassionato. Siamo dalle parti di Hall&Oates, di Michael McDonald, dei Simply Red, anche di Prince, insomma di quel “blue eyed soul”, la musica nera fatta da quei bianchi (vabbè, Prince è mulatto…) che la amano visceralmente.

Zappacosta ha una bella voce e una predilezione per la chitarra classica, quella con le corde di nylon, la cui presenza negli arrangiamenti ogni tanto diversifica un panorama dominato dalle tastiere e dalle batterie (elettroniche, oppure vere che però suonano quasi come elettroniche, in ragione dello stile impettito e povero di swing, molto discotecaro, al tempo imperante nelle produzioni). Per fortuna c’è anche molto pianoforte, suonato divinamente da un suo collaboratore tal Marco Luciani (altro paisà, complimenti!), con quel virtuoso tocco jazz a illeggiadrire le pause della voce e proporre rivolti armonici eleganti e musicali.

Sono molto affezionato in particolare alla seconda e terza traccia, intitolate rispettivamente “Nothing To Do With Love” e “Simple Word To Say”. La prima di esse è un funky pop che srotola impeccabilmente il suo groove altamente ballabile, mentre che il Luciani sciorina cascate di accordi e liquide danze sui tasti d’avorio e il titolare sfodera il suo bel canto, insieme blues e afrodisiaco. La seconda è una ballata irresistibilmente romantica, arrangiata con garbo ed efficacia, che si fa perdonare l’estrema ruffianeria in forza di una bella melodia ed una rigogliosa interpretazione.

Gran parte dell’album si risolve in una serie di funky moderati che nei momenti migliori, ovvero quelli più intrisi di jazz e sospinti da un capace batterista in carne ed ossa (l’ennesimo paisà, a nome Tony Azzopardi), si avvicinano financo alle atmosfere degli Steely Dan. Non sempre, perché altrove il pop ballereccio è assai più di maniera richiamando parecchio i Simply Red, a parte il canto che è del tutto diverso, essendo la voce di Zappacosta meno esplosiva ed acuta di quella del rosso Hucknall.

Ben tre ballate sono concentrate a fine scaletta, diversissime fra di loro: la prima “I’ll Be The One” è molto (troppo) strascicata e manierosa, la seconda “Worries Away” è più mossa e pianistica, la finale “Don’t Ask Me” è un saggio di Alfie sulla chitarra acustica, pizzicata con grazia ad accompagnare la caldissima voce, con in aggiunta solo un sottile arricchimento di archi elettronici.

Una celebrità in Canada, un perfetto sconosciuto in Europa, in particolare nel suo paese natio: Alfie Zappacosta.

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