Perchè recensire una raccolta e per giunta doppia?
Semplice, perchè dopo 10 anni di inattività, lo zio Jerry, diabolica mente degli Alice in Chains, dopo la scomparsa di uno dei più grandi cantanti degli anni '90, frontman di immenso carisma qual'era Layne Staley, richiama il talentuosissimo batterista Sean Kinney e il bassista Mike Inez e assolda un nuovo cantante, tal William DuVall, già con i Comes With The Fall, e decide di far uscire un nuovo album a nome Alice in Chains (cattivo gusto o geniale trovata?).
Prima che arrivino le recensioni di "Black Gives Way To Blue", vorrei ricordare al popolo Debaseriano chi erano e cosa hanno fatto gli Alice in Chains prima della tragica scomparsa di Layne, e non posso che farlo andando a recensire questo mastodontico album, 2 CD, 28 pezzi tratti da ogni uscita discografica del gruppo che meglio inquadrava lo spirito "grunge" dei favolosi anni d'oro di Seattle.
La loro attività inizia nel lontano 1987 e (dopo un EP intitolato "We Die Young") il loro "vero e proprio" battesimo discografico, "Facelift", decisamente notevole per essere l'esordio, è datato 1990, da cui sono tratte l'irriverente e potentissima "We Die Young", titolo alquanto profetico, la splendida e claustrofobica "Man in the Box", l'epica "Sea of Sorrow", la cupa monumentale "Love Hate Love", dove Layne dava già sfoggio delle sue grandi capacità vocali, e lasciava intravedere l'agonia e la sofferenza che di lì a poco si insinuerà in tutta la produzione successiva di Alice. Con questo biglietto da visita i quattro ragazzi si presentavano al mondo, salivano su un treno che li avrebbe portati in giro per le platee di mezzo pianeta lungo un tragitto durato artisticamentte 6 anni e per uno di loro drasticamente e bruscamente interrotto il 5 Aprile 2002.
Da "Sap", splendida gemma acustica, EP di soli 5 pezzi, sono tratte la crepuscolare "Am I Inside", il superbo intreccio di voci di "Brother", la semi-elettrica "Got Me Wrong", queste due riprese anche nell'ultima uscita della band, il famoso "Unplugged" del 1996, e una perla rarissima targata Alice Mudgarden, ovvero il connubio Mark Arm - Chris Cornell - Layne Staley, in "Right Turn". Di questo magnifico gioiello manca solo la folle "Love Story", lasciata fuori penso volutamente. Gli Alice in Chains spiazzano parecchio con questo piccolo capolavoro, ma vogliono far vedere che oltre alla violenza sonora esiste un lato più intimista e loro non hanno certo paura a mostrarlo.
Arriviamo quindi al disco della consacrazione, il magnifico e inarrivabile "Dirt".
Non si sa esattamente cosa stia a significare il termine "Grunge", appioppato alle band di Seattle sicuramente dalla stampa, quest'ultima sempre con la brutta abitudine ad etichettare tutto per far "moda" e "tendenza" (brrrr..), ma se vogliamo trovare la colonna sonora appropriata per il genere, non può essere che "Dirt": album malato, drogato e distorto al limite.
Da questa pietra miliare le tracce scelte sono la psichedelica "Rain When I Die", la metallica "Them Bones", la cupa, acida "Angry Chair", l'esplosiva "Dam That River", il lamento infinito di "Dirt", la sghemba e affascinante "God Smack", la lenta, cadenzata blueseggiante processione funerea di "Hate To Feel" e la splendida, non trovo altre parole, ballata elettrica "Rooster". Lasciata inspiegabilmente fuori la celeberrima e struggente "Down In A Hole", non si sa se volutamente o meno.. Mentre la potenza di "Would?" esplode solo nell'ultima traccia del secondo disco (e meno male che questa ce l'hanno infilata dico io!).
Dopo "Dirt" il successo è planetario, ma si rivela anche la rovina degli Alice: Staley è sempre più dipendente dagli stupefacenti e fatica ormai a cantare, deve incidere più parti vocali per dare spessore alle sue performances in studio, ma la voce "luciferina" si sente ancora tutta.. Un attimo di pausa riflessiva gli Alice se la prendono con l'album a cui sono maggiormente affezionato e ritengo un vero e proprio capolavoro, mi riferisco all'elettro-acustico "Jar Of Flies", in cui viene fuori ancora una volta il lato "angelico" della band. Il pop decadente di "No Excuses", con quel particolarissimo giro di Kinney, apre il secondo disco, seguito dalla soave e sinfonica "I Stay Away", quattro minuti di delizia auricolare. Dopo questi due soli estratti (ingiustamente) si passa a due singoli usati per la colonna sonora di "Last Action Hero", trattasi di "What The Hell Have I" e "A Little Bitter".
Dall'ultimo, omonimo (a molti piace chiamarlo "Tripod") album in studio, sorta di "testamento" in grande stile, gli estratti sono la graffiante "Grind", la riflessiva "Heaven Beside You" e "Again", dove nel video si può notare il notevole declino fisico di Layne. Sinceramente io ne avrei scelte ben altre ("Brush Away" e "Sludge Factory" su tutte), ma tant'è.. Ci si accontenta lo stesso.
A chiudere il cerchio troviamo due pezzi presi dall'ultima esibizione registrata della band, quell'"Unplugged" malatissimo e maledettamente affascinante datato 30/07/1996, lo struggente addio alle scene di una storica voce che si è ritirata in silenzio e solitudine, senza disturbare, senza il clamore del circo mediatico.. Lasciatemi andare in pace sembrava voler dire Layne seduto su quello sgabello, mentre modulava le ultime note dalle sue "malate" corde vocali. L'ultimo magnifico volo.. "Over Now" e la straziante, poetica "Nutshell", che avrei preferito in versione studio, ma è giusto che un Re/gladiatore si prenda i suoi applausi, è giusto che la folla lo accolga con il boato più grande quando entra in scena per l'ultima volta.
Il sipario cala definitivamente con gli ultimi due pezzi composti dagli Alice in Chains prima del silenzio: "Get Born Again" e "Died".
Questa raccolta può servire a due cose: far conoscere alla nuova generazione chi erano gli Alice in Chains e la loro splendida musica, oltre ad evitare di cercare i singoli dischi poichè qui si trova gran parte del materiale inciso dalla band lungo tutta la loro parabola artistica, quindi ci si può fare benissimo un'idea della loro proposta. La terza opzione nascosta è: far entrare ancora del "grano" nelle tasche del buon Jerry Cantrell e soci, ma non la diciamo, dai..
Layne Staley è stato trovato morto nella sua abitazione il 19 Aprile del 2002, ma il decesso risale al 5 Aprile, stesso giorno di un "altro" che ha fatto molto più "rumore" andandosene.. Ci ha pensato la sua compagna velenosa a stroncarlo: un'overdose di speedball.
Layne se n'è andato solo, dimenticato da tutti, la sua morte è passata quasi inosservata..
Le sue ultime parole pubbliche sono racchiuse in quest'intervista.
Ora, a distanza di ben dieci anni, la storia continua; non so se abbia o meno senso riproporsi con lo stesso nome, ma spero almeno che la memoria di Layne venga degnamente onorata da questa nuova avventura perché Lui, nel bene e nel male, Alice non l'ha mai tradita, comportandosi fino all'ultima esibizione da vero e proprio Signore.
R.I.P.
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