Svaniti solo dopo qualche anno di attività, e con soli tre album lasciati ai posteri, questi signori irlandesi hanno senz'altro lasciato un'impronta significativa lungo il tracciato del metal estremo degli ultimi anni (vedi alla voce: post-black metal). Il loro canto del cigno, “Teethed Glory and Injury”, era roba strana, sicuramente non per tutti i palati: le pulsioni volte alla sperimentazione prendevano così il sopravvento sul resto, spingendo il sound della formazione di Cork a flirtare con la musica industriale, il noise, l'elettronica, oltre che ovviamente con il post-rock (vi dirò: io ci sentivo anche un po' di math-rock). Un esperimento senz’altro riuscito, quindi, anche se la band non in tutti i frangenti si è mostrata impeccabile, al passo con le proprie ambizioni e con il proprio coraggio (del resto in quelle sessioni era probabilmente già insito il virus della dissoluzione).

Questi quindi erano gli Altar of Plagues nel loro letto di morte, nell'anno domini 2013. Ma se volessimo compiere un brusco salto indietro e ripercorrere a ritroso il loro breve cammino, partendo da qui e passando dall'ottimo “Mammal” (2011), in cui il genio compositivo di James Kelly aveva già avuto modo di manifestarsi in maniera preponderante (un album oscuro, “Mammal”, scarno, terribile, ma dal piglio ragionato, figlio di un equilibrio compositivo e di una straordinaria visione di insieme che permetteva ai tre isolani di confezionare brani lunghissimi, ma al tempo stesso asciutti, mai dispersivi o peggio ancora insensati), se facessimo un balzo a piè pari, si diceva, fino a “White Tomb”, primo full-lenght licenziato nel 2009 sotto l'egida della Profound Lore Records, ci ritroveremmo al cospetto di una band essenzialmente diversa.

Già. Gli Altar of Plagues di “White Tomb” erano pura poesia.

In origine la band (all’epoca un quartetto) abbracciava un sound più classico, quello di un black metal impetuoso e senz'altro feroce, rischiarato però da un sorprendente gusto melodico (che percorre l'opera dall'inizio alla fine) e da aperture post-metal di indubbia derivazione statunitense (Isis, Pelican ecc.). Anche se provenienti dalla vecchia Europa, gli Altar of Plagues sono infatti fautori di una musica che può essere ricondotta al filone U.S. Black Metal, ossia quel manipolo di band americane che nel corso degli anni zero ha avuto l’ardire di rileggere (e rilanciare) l’operato delle vere glorie scandinave che quel linguaggio l’hanno coniato nella prima metà degli anni novanta (la maestosità è quella degli Emperor, la poetica ossessiva e decadente è tipicamente burzumiana): una compagine di band, quindi, che vede come antesignani gli Weakling e successivamente, come principali esponenti, nomi come Xasthur e Leviathan (per quanto riguarda la controparte depressive) ed Agalloch e Wolves in the Throne Room (se si parla di contaminazioni mutuate dal post-rock).

E proprio con quest’ultimi gli Altar of Plagues hanno più di un aspetto in comune: l’amore per composizioni lunghe, per passaggi strumentali dilatati ed emozionanti, per un suono stratificato, per la volontà e la capacità di trasferire le emozioni in una musica maestosa, atroce, bellissima. Maestosa, atroce, bellissima come la Natura, potremmo dire, Madre e carnefice al tempo stesso: come i lupi americani (che nel medesimo anno, il 2009, giungevano già al loro terzo album, e già ne sapevano a palate) anche la band di James Kelly nutriva un forte interesse per le tematiche ambientaliste, e infatti “White Tomb” era animato da un concept apocalittico: potremmo infatti definirlo come la cronaca musicata della fine del nostro pianeta (tema che già s'intravede fissando quella strutturaccia in metallo spersa in un paesaggio desolato che potrebbe rappresentare benissimo la quiete prima della tempesta, come il fosco scenario che seguirebbe la stessa). Non solo quindi l’espressione cruenta di una visione del mondo essenzialmente pessimistica, tradotta in una musica caotica e dilaniante che si erge a distopia, metafora di un sistema sull’orlo del collasso: ma anche un monito volto ad un cambiamento di ordine culturale, economico, sociale.

Tanto per intenderci:


EARTH

I – As a Womb (12:03)

II – As a Fornace (15:01)


THROUGH THE COLLAPSE

III – Watchers Restrained (9:48)

IV – Gentian Truth (13:10)

Ossia: la furia degli elementi, il caos, il collasso, la fine.

Questo il percorso che l'opera, suddivisa in quattro lunghi capitoli, ci offre nell'arco dei circa cinquanta minuti della sua durata: un viaggio nel dolore e nella consapevolezza, condotto da musicisti competenti e costruito su tre assi portanti: velocità, dinamismo, melodia; un percorso di disfacimento materiale e spirituale che, dal punto di vista prettamente musicale, si sviluppa nella seguente successione di fasi: black metal furente, break arpeggiati e conseguenti detonazioni post-rock, iniezioni depressive, funereo doom & drone (music), struggente melodia (finalmente Agalloch!) fra catarsi, elegia e miasmi da fine del mondo.

Nel black catastrofico di “White Tomb” c’è tutto quello che solo il black metal stesso sa descrivere: furia, sofferenza, disperazione. Ma c’è anche tutta quella gamma di sensazioni che mette a disposizione un genere ad alto tasso emotivo quale è il post-rock: malinconia, romanticismo ed ancora epicità e rabbia. Le due chitarre amano intrecciarsi e rincorrersi generando una girandola di emozioni senza sosta; la batteria non teme di correre alla velocità della luce, seppur si dimostri in grado di reggere progressioni più articolate (e il bello è che la base ritmica è talmente tutt'uno con il flusso sonoro, che raramente il drumming elegante dell'ottimo S.MacAnri attira l'attenzione su di sé). La voce di Kelly è un latrato che può solo trasmettere disperazione; suggestivo l’apporto di una seconda voce, uno screaming acuto che si muove su tonalità ancora più alte, utilizzato nei passaggi più sofferti dell'album. Volendo aprire una parentesi su Jeremia Spillane (l'altro chitarrista, il vero talento melodico degli Altars of Plagues e generatore continuo di armonie fluide, perfettamente complementari all'approccio più dissonante e noise di Kelly), certo il suo contributo avrà avuto un peso in questa release, poiché già dal successivo “Mammal” (nel quale sopravviveranno, della formazione originaria, i soli Kelly e il bassista Dave Condon, qui alla sua migliore prova) si sentirà la sua mancanza, come se gli Altar of Plagues avessero poi proseguito il loro cammino all'insegna di una progressiva compressione di suoni, idee e scrittura, fino ad arrivare alla sintesi perversa delle tracce da quattro o cinque minuti presenti in “Teethed Glory and Injury”.

Ma ai tempi di “White Tomb” gli Altar of Plagues erano pura poesia. E se esso secondo il parere di chi scrive non merita il massimo dei voti (qua e là, infatti, offre ai padiglioni auricolari qualche lungaggine di troppo o dei passaggi non sempre memorabili, soprattutto nella sua seconda metà; ampliando lo sguardo, potremmo inoltre dire che il dazio pagato nei confronti dei maestri Wolves in the Throne Room è ancora troppo grande), preso di per sé “White Tomb” è un capolavoro, e nella brevissima carriera di questa band straordinaria rimane sicuramente l’album del cuore, quello più passionale, immediato e straripante di vere emozioni.

Imprescindibile per chiunque segua/ami il black metal del terzo millennio.

Elenco tracce e video

01   Earth: As a Womb (12:03)

02   Earth: As a Furnace (15:00)

03   Through the Collapse: Watchers Restrained (09:47)

04   Through the Collapse: Gentian Truth (13:09)

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