Se dovessimo pensare a un’eccellenza del metal degli ultimi anni, io non esiterei un attimo e direi: Alter Bridge.

La band, nata nel 2004 ad Orlando, Florida, è composta per il 75% da ex componenti dei mitici Creed, band post-grunge che dal 1995 al 2012 (con una pausa di cinque anni tra il 2004 e il 2009) ha infranto qualsiasi record di vendite. Nei Creed, il frontman era Scott Stapp (non proprio l’ultimo arrivato), negli Alter Bridge il microfono (nonché la chitarra elettrica ed acustica) è stato affidato a Myles Kennedy, voce da quattro ottave (Freddie Mercury ne aveva tre...) di qualità imbarazzante. Myles arrivava da un mezzo fallimento con la sua ex band, “The Mayfield Four”, con la quale ha prodotto due album, iniziando da subito a stupire la critica. E pensare che solo pochi anni prima dava lezioni private di chitarra (come prima occupazione) ed era troppo timido per capire che sarebbe potuto essere un cantante straordinario…

Ma torniamo a noi. Con Myles Kennedy troviamo Mark Tremonti alla chitarra, Brian Marshall al basso e Scott Phillips alla batteria. Tremonti è tra i chitarristi più conosciuti e apprezzati nel panorama metal ed è noto il suo progetto solista "The Tremonti Project", con il quale ha sfornato cinque potenti album in nove anni. Recentemente è anche uscito a scopo benefico (per l’associazione “Take a Chance For Charity” da lui fondata) “Tremonti sings Sinatra”, un disco di cover registrato con Mike Smith e i membri superstiti della band del grande Frank.

Myles, oltre a poter vantare due album come solista, affianca Slash nel progetto parallelo “Slash feat. Myles Kennedy & The Conspirators”, con il quale ha registrato quattro album.

Scott Phillips, invece, fa parte anche del supergruppo “Projected”, fondato con John Connolly, Vinnie Hornsby dei Sevendust ed Eric Friedman, quest’ultimo proveniente proprio dal Tremonti Project. Questo inciso era necessario per chi non conoscesse la band e per dare un’idea della misura del talento che troviamo tra le sue fila.

“Pawns & Kings” è il settimo album in studio e arriva dopo diciotto anni di attività e una quantità infinita di successi. Fa quindi parte di quelle prove importanti alle quali una gruppo si deve sottoporre, per dimostrare di riuscire a dare continuità al suo lavoro. Capirete alla fine della recensione se la prova è stata superata, anche se le cinque stelline fanno già da spoiler.

Questo settimo lavoro è pura maturità (se ce ne fosse ancora bisogno), potenza tutt’altro che fine a se stessa, novità ma anche notevole conferma. Si capisce subito di cosa stiamo parlando, già dalla prima traccia: “This is War”. La voce di Myles si palesa senza esitazione in tutta la sua qualità, crescendo ed accompagnando l’esplosione musicale dei bandmates. Poche righe non renderanno mai bene l’idea di cosa sia ascoltare un brano degli Alter Bridge. Le corde di Tremonti e Marshall riempiono le orecchie e accompagnano le percussioni di Phillips, in un amalgama di inaudita potenza, con voci corali a singhiozzo. I primi trenta secondi sollevano già i pori della pelle. E siamo soltanto all’inizio.

Le stesse sensazioni si avvertono in “Dead Among the Living”, “Silver Tongue” e “Sin After Sin”. Tremonti scatena tutto il suo virtuosismo, con riff ancora più complessi di quelli che siamo stati abituati a sentire fino a qui. Myles sale, scende, strappa, i vocalizzi che esulano dal testo cantato sono ormai un marchio di fabbrica. Dopo quasi vent’anni e un bel po' di live ai quali ho assistito, le mie orecchie rimangono sempre incredule, neanche le avessi usate per la prima volta.

“Stay” è l’emozionante ballad dell’album (non mancano mai), dove Myles si fa da parte quasi completamente, per cedere il microfono a Tremonti, ormai apprezzato e riconosciuto tanto per le corde vocali, quanto per quelle virtuose delle sue chitarre. Mark ha iniziato timidamente fin dai primi anni come backing vocalist, guadagnandosi sempre più spazio, fino alla totale consapevolezza del proprio talento con la nascita del progetto solista. In questo pezzo sfrutta tutte le sue ottave, accompagnato nei ritornelli da Myles, che qui è a tutti gli effetti la seconda voce. Il testo grida alla speranza, con un occhio rivolto al cielo:

“Don't turn away again for I am always at your side

As I take another look around me

And as I'm trying to be all I can be.

The time, it is right to love, to feel, to light a fire

We'll never know just when we'll have the chance again”

Non ci sono ancora conferme ma con molta probabilità si tratta di una dedica alla madre di Mark, scomparsa esattamente vent’anni fa e alla quale Tremonti aveva già dedicato la struggente “In Loving Memory”, al tempo interamente cantata da Kennedy.

“Holiday” tira una riga, è di fatto l’ultimo pezzo da headbanging e ci conduce verso sonorità più radio friendly. La partenza è affidata a riff a singhiozzo, che trasformano la punta dei nostri piedi in un metronomo che picchietta in allegretto. Anche il testo è più esplicito degli altri, tra le righe si legge cinismo e totale arrendevolezza di fronte alle difficoltà della vita.

Come anticipato, da questo punto in poi il ritmo rallenta e spicca una vocalità più pacata di Myles.

“Fable of the Silent Son” è la capostipite di questa narrazione a tratti cupa. Pezzo inizialmente acustico, acquisisce piano piano le corde di Tremonti e nonostante un ritmo cantilenante, esplode a metà con un assolo degno di nota.

“Season of Promise” riporta ottimismo e trasmette positività nel cantato, con un ritornello davvero emozionante. “Last Man Standing” ci porta verso la fine. E’ il pezzo che ho meno apprezzato, sapendo anche di già sentito. E’ però indubbio che tecnicamente sia impeccabile e possa comunque dire la sua.

A “Pawn & Kings”, la title track e primo singolo estratto, è stato affidato il ruolo di closing song. Durante il primo ascolto ricordo di essere rimasto abbastanza tiepido, soprattutto considerando quello a cui siamo stati abituati negli ultimi anni. Il cantato vira di continuo e da l’impressione di essere spesso distonico rispetto alla musica. Rimane però sempre tecnicamente interessante e viene impreziosito dalla solita chitarra di Tremonti, onnipresente valore aggiunto in questa band.

Ogni qualvolta esce un nuovo disco degli Alter Bridge mi chiedo come i quattro di Orlando facciano a migliorarsi e rinnovarsi sempre. E ogni volta, sistematicamente, non trovo la risposta. Il segreto del loro duraturo talento e della loro speciale chimica credo risieda nella capacità di dare vita e continuità anche a progetti paralleli, che a loro volta stupiscono per la loro qualità.

Il voto è alto anche questa volta e sarebbe bello che tutti, ma proprio tutti, avessero almeno un disco degli Alter Bridge nelle proprie case. Perché qui si fa la storia.

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