La meditazione e la riconciliazione con l'essenzialità dell'esistere rappresentano oggi i risultati di un esorcismo.
L'arte - fin quando è vera ossia indipendente e disinteressata - è forse l'unica cosa che possa sublimare un essere nella sua intrinseca inutilità e nella sua solitudine universale. Equivale a urlare sé stessi, elevando però il grido a una sorta di oltre-umano, e questa è l'unica cosa che si possa davvero fare.
La musica minimalista è un po’ la trasposizione di questa visione totalizzante in una ipotetica classificazione musicale. È quel genere che mi dà di più la sensazione di musica nel senso più puro del termine. La programmaticità manieristica e ancor un minimo segno di impegno riscontrabile in un'opera me la rendono come contraffatta, sfregiata, falsa; nel minimalismo, nel quale risiede più che mai quello che è l’abbandono, viene rappresentata una piccolissima parte della musica (spesso ripetitività di pochi elementi in un tempo dilatato), ma nella sua forma così nuda ed essenziale che è come percepirne allo stesso tempo la totalità. Come la crepa in un muro, la spaccatura in una roccia (che permettono, anche se appena, di vederne l’interno inalterato).
Steve Reich, monumento vivente di questo tipo di musica, autore di capolavori come Drumming e Music for 18 Musicians diceva, già nel 1974 per il suo Drumming: “Ho scoperto che la musica più interessante in assoluto consiste semplicemente nell'allineare i loop all'unisono e lasciarli uscire lentamente fuori fase tra loro” e rivoluzionava la spazialità temporale in musica andando a creare una sorta di “illusione ritmica” restituita dal graduale e matematico sfasamento di pattern uguali, quasi a voler riprodurre la struttura aleatoria della realtà a livello quantico (praticamente la poeticità del linguaggio della realtà).
Se Reich, insieme a un’ottima parte degli avanguardisti classici nella quale svettano Philip Glass, Wim Mertens, Meredith Monk in buona parte ecc., però, porta avanti con spirito rigoroso e scientifico i suoi esperimenti, pervenendo a una musica tanto profonda e primitiva quanto glaciale (rischiando a volte di "scadere" in meri esercizi stilistici), Alvin Curran, in questo lavoro, sembra in parte utilizzare l'espediente del collega ma andandolo a trasfigurare, donandogli calore vitale, operando a una scala più macroscopica, e andando, da un certo punto di vista, oltre Reich. Se quello di Reich è un abbandono dovuto in parte all’ipnosi quello di Curran è un abbandono dovuto più alla poesia.
In Canti Illuminati crea dal nulla un paesaggio complesso sottoforma di multi-stratificazioni vocali non semplicemente formate da frasi ripetute, ma da frasi ogni secondo differenti una dall’altra, coadiuvate da droni ed effetti e rifiniture di ogni tipo (da strumenti sintetici e chimes a rumori concreti e frammenti multimediali).
Da una parte l’elevata complessità rende quest’opera un minimalismo che etichetterei come barocco, allontanandosi idealmente dal concetto di purezza minimale, dall’altra la cura assoluta nell’arrangiamento, l'elegante organizzazione delle stratificazioni e la naturalezza nell’esecuzione le ridonano paradossalmente l’afflato della più ingenua spontaneità.
Raramente mi sono stupito tanto dell’immaginazione e creatività di un artista come durante questo ascolto.
Dopo un inizio austero e silenzioso dominato da manufatti umani (navi, battelli a vapore, impulsi sonori portuali) si sollevano lentamente vocali nasali prolungate, come spifferi di una leggera brezza, diventando gradualmente predominanti. Da una singola fantasia (tonale e timbrica) si sviluppa un’inflorescenza sempre più ricca e suggestiva di pattern vocali mantrici sovrapposti e organicamente alternati, sorretti da droni di diversa natura che scandiscono la singola tonalità. La dinamica dello sciame vocale è molto aleatoria ma la “corrente” fluisce continua, mutando nei connotati: si va da nenie sofferenti a misteriosi ronzii sciamanti, passando per oscure nebulose sonore roteanti, alla deriva.
È impressionante come il flusso mutaforme composto praticamente da un’infinità di diversi piccoli grumi e segmenti scorra fluido come se fosse una sola cosa senza che l’ascoltatore percepisca la benché minima artificialità (la sensazione è di una struttura sonora naturale, scevra da mano umana). Altrettanto impressionante è la presenza di una fortissima carica emotiva in questa complessità sperimentale.
La moltitudine dei canti si impasta e si confonde talvolta non lasciando spiragli nell'intricato intreccio, talvolta mutando in percorsi più lineari e quasi ritmati, comunque raggiungendo a un certo punto una densità tale da trovare una certa stabilità. Solenni colpi di un basso sintetico organizzati randomicamente accentuano la tensione arricchendo ulteriormente l’atmosfera.
Archi rampanti, pilastri a fascio, protuberanze, guglie, verso ferme altezze divine; decorazioni, asimmetrie, brulicare di dettagli, protesi verso mille fughe: è una cattedrale gotico/barocca di voci.
Il salmodiare microtonale ormai dronico, è benedetto da un continuato tintinnio celeste: è come essere sospesi nel paradiso, in una santa indefinizione perpetua. Ogni vibrazione in questo forsennato pullulare profonde un'intensa spiritualità che sembra cantare dell'elegante indifferenza (e disumanità) della natura e del mistero nella sua incomprensibilità.
Se la prima sezione è un continuum, la seconda è nettamente frammentata e maggiormente disordinata, dando quasi l’impressione di un paesaggio metafisico e surreale De Chirichiano.
Deliziose micro-sinfonie di bordoni vocali e sintetici (l’influenza di Ligeti è totale) si susseguono frammentariamente alternate a cocci di canzoni anni ‘30 e di canti di lavandaie italiane che compaiono qua e là, con i quali gli stessi pilastri dronici interferiscono. Dietro tutto questo, gradualmente appare, come la proiezione di un mostro, una Scala Shepard disarticolata, con differenti registri vocali che sbucano da tutte le parti, interposta a vociare dissonanti e incombenti alla Ligeti, solo più meditativi.
L’inquietudine la fa da padrona in questo caos.
Ma a metà emerge dall'oscura matrice un arpeggio pianistico celestiale, il quale, nel suo vellutato incedere solitario, trasporterà con sé solo le “scorie” più eteree di quella. Si unisce al delicato idillio sonoro la voce androgena e indescrivibile di madre natura, che inizia a muoversi sinuosa nello spazio sconfinato. È la sezione più evocativa.
Il leggero vento danza occupando interamente l'immenso volume senza barriere; fa oscillare, libero, l'argenteo mare d'erba. Si è catapultati in un’elevata distesa, tra rilievi accennati e montagne statuarie. Molto ci separa dalla civiltà in questo spazio perduto. Il tepore vivace e rassicurante del Sole già abbastanza rivolto a occidente, intermesso da momenti più malinconici in cui le nuvole si intromettono tra noi e lui, contrasta con una brezza pungente andando a creare una sensazione agrodolce che riempie l'anima, incontenibilmente vogliosa di librarsi nello spazio, lontana dall'involucro.
Il tempo non esiste in questa musica, tutto si svolge in un frammento di eternità, in un tutt’uno con la natura, tanto pura e seducente quanto spietata e priva di sentimenti. Si è quanto di più vicini all'inorganico, liberi dal beffardo peso del significato, del costrutto, si è semplicemente parte integrante di questa (tautologicamente) perfetta casualità, identici a ogni altra delle sue parti, si è nulla più, finalmente liberi da noi stessi.
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