Esattamente vent’anni fa, gli American Football davano alle stampe il loro esordio, destinato a diventare un album di culto per le generazione successive. Un progetto, quello degli American Football, che avrebbe dovuto sparire così come era apparso, molto velocemente. E così fu: la band si sciolse poco tempo dopo e sparì.
Mike Kinsella però non era contento della fine che aveva fatto fare alla sua band di quando era ragazzino. Così, ormai quasi cinquantenne, sposato, con una famiglia e qualche capello grigio, decise di riprovarci, di dare una seconda possibilità a quel suo progetto di liceale. Nel 2016 riecco quel nome: American Football. Riecco la casa in copertina, come nel disco del 1999, riecco quel suono. Nulla era cambiato, eppure l’età, la saggezza accumulata, la vita cambiata radicalmente, fecero in modo che il secondo album della band fosse più adulto, più raffinato, più calcolato. Non toccava le vette altissime di emozione e sensibilità dell’esordio, ma era comunque una buona ripartenza, un perfetto punto da cui riprendere l’attività.

Ora, tre anni dopo, ecco il terzo album degli American Football. Cosa aspettarsi? Cosa ci sarà dentro? Le novità in effetti ci sono: sparisce la casa sulla copertina, che stavolta raffigura un tramonto tinto di viola, rosa e azzurro (niente più verde che dominava invece sulle altre due cover), e per la prima volta ci sono delle collaborazioni esterne. Nel 2019, gli American Football sembrano finalmente decisi ad essere una vera band, e non un progetto effimero.

Tutto comincia con i sette minuti di “Silhouettes“, leggiadra ballad in cui la brutale onestà dei testi di Mike Kinsella si mescola perfettamente al suo senso dell’umorismo. Un brano stratificato, musicalmente complesso, che unisce drammatiche chitarre ipnotiche, un profondo giro di basso e una morbida batteria ad un inusuale glokenspiel e degli archi che fanno da tappeto. Un’alchimia che ammalia, che mette in pace e che dimostra quanto la band sia ormai consapevole delle proprie, enormi abilità di musicisti.
La successiva “Every Wave To Every Rise” presenta il primo dei tre featuring presenti nel disco: quello di Elizabeth Powell dei Land Of Talk. Una voce femminile dunque, che aggiunge eleganza e delicatezza ad un pezzo già di per sé raffinato. I temi trattati in questo brano (e in tutto il disco a dire il vero) sono temi cari a Kinsella & Co., come l’essere genitori, l’essere mariti, l’essere adulti, l’essere uomini di mezza età.
Le tre collaborazioni mi hanno piacevolmente stupito: se quella già citata con Liz Powell è ottima, le altre due non sono da meno. Un’aggiunta di voci femminili che donano eleganza, dolcezza e profondità. La giovane Hayley Williams (cantante dei Paramore) appare in “Uncomfortably Numb“, uno dei brani più “allegri” del disco. Lo so, dire che questo brano sia allegro forse è esagerato, ma comunque è uno dei pezzi che emana più positività.
La splendida Rachel Goswell degli Slowdive eleva “I Can’t Feel You” a brano migliore di tutto l’album. Una canzone dai suoni più dark, più shoegaze, più ossessivi. Un giro di chitarre che toglie il fiato, e la vibrante voce di Rachel che sembra una presenza incorporea, impalpabile. Il ritmo però è sostenuto, e le chitarre si fanno coraggio, accennando un notevole assolo nella parte centrale del brano. Semplicemente fantastico.

In tutto il disco non c’è un momento in cui l’identità degli American Football venga meno. Non un momento in cui non si percepisca il loro stile unico e iconico, in cui echi dell’emo degli esordi si mescolano ad un raffinato indie-rock moderno (chi ha detto The National?) e a momenti vicini allo shoegaze più ricercato (vedi alla voce Beach House). Otto gemme di enorme qualità. Otto brani di una magnifica bellezza, che parlano dell’essere adulti e di tutte le difficoltà che ciò comporta. Testi dunque riflessivi e introspettivi, ma che non appesantiscono mai troppo l’ascolto e che, anzi, sanno far riflettere con pacifica nostalgia e delicata ironia.

Nei suoi quasi otto minuti di durata, “Doom In Full Bloom” sa emozionare per l’immancabile tromba degli American Football. Una tromba che da sempre è marchio di fabbrica della band, e che anche qua non poteva mancare. Il brano forse più struggente del disco, che riflette sulla difficoltà di mantenere un rapporto duraturo in età adulta.

You’re buried in the library, just you could hide from me; I’ve never been so alone—so desperate to be home.

L’album si chiude con “Life Support“, brano devastante in cui gli archi si mescolano alle melliflue chitarre, per accompagnare mano nella mano un Mike Kinsella che si dimostra anche ottimo cantante, oltre che cantautore. Una voce forte, dei cori che da dietro fanno capolino. Un perfetto connubio di malinconica melodia e di voci dark e al contempo positive.

Il terzo American Football è un grande disco dal grande cuore. La sintonia tra i riverberi emo del passato e la raffinatezza dell’indie-rock più adulto funziona. Non siamo certo di fronte ad un capolavoro assoluto, ma senz'altro siamo di fronte ad un album ben fatto, con un'anima sincera.

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