E' dura vivere nell'ombra di qualcuno, ne sanno qualcosa gli Amon Düül, visto che vengono oscurati non da una, ma ben due figure ingombranti. Ci sono inanzitutto i loro cugini, i più famosi Amon Düül II, che scrissero alcune delle pagini migliori del kraut; in più tra i pochi che conoscono la versione uno del gruppo i più lo fanno principalmente a causa della militanza nello stesso di Uschi Obermaier, percussionista nonchè modella (per par condicio ecco qui un corrispettivo maschile affinchè anche le rappresentanti del gentil sesso possano rifarsi gli occhi).

Ma iniziamo dal principio. Gli anni '60 stanno terminando e la Germania, uscita sconfitta dalla guerra e ora divisa, al centro dello scontro tra occidente e sovietici è ancora alla ricerca di una propria identità, anche dal punto di vista culturale.
Questo periodo di vuoto ed incertezze è caratterizzato da forti moti di protesta nel paese ed è proprio dai movimenti studenteschi che affiorano parecchi gruppi underground, spesso con forte matrice ideologica di sinistra che oltre ad aspirare ad una società nuova (e si spera migliore) cercano anche di dare un nuovo volto alla musica alemanna, prendendo come base di partenza la psichedelia americana (ai quali si aggiunsero anche le prime sperimentazioni con l'elettronica, allora ancora agli albori) ma rileggendola in chiave prettamente teutonica, dando vita a quello che sarebbe diventato uno dei generi più interessanti, creativi ed originali della musica moderna: il krautrock.

Fu così che nel 1967, a Monaco di Baviera, naquero gli Amon Düül, comune artistico dedito a una psichedelia estremamente free-form, quasi anti-musicale nel suo essere rumoristica, volutamente amatoriale e puramente basta sull'improvvisazione. La comune seguiva infatti alla lettera il dogma della liberà creativa, non dando alcuna importanza alle capacità musicali dei proprio componenti e se questa libertà assoluta è proprio il principale punto di forza del disco ne è però al contempo anche il maggior difetto: i pezzi, nel loro essere orgogliosamente e inequivocabilmente freak mostrano alla lunga la corda, in quanto prevale un senso di confusione e si ha l'impressione che l'album vada un po' a vuoto; si sente insomma la mancanza di un seppur minimo filo conduttore che funga da guida e dia una direzione, una struttura ai pezzi, che spesso si perdono in un gran percuotere di tamburi ed annessi. Non mancheranno anche in seno alla comune voci dissidenti, che spingevano in direzione di una seppur minima padronanza dello strumento ed aderenza a strutture musicali più "formali", da questa divergenza risulterà poi la separazione in I e II.

Se quest'album e il gruppo sicuramente meritano il plauso per il coraggio e l'assoluta fedeltà alla linea, oltre ad essere storicamente fondamentali in quanto precursori di tutto il kraut a venire, non si può negare che l'opera in se desti più interesse per il valore storico che quello artistico. Non che l'ascolto sia sgradevole, ma nel confronto non solo con i più maturi cuginetti, ma anche con gli altri gruppi storici del genere, i nostri non possono che uscirne, perlomeno un po', malconci.

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