Era tanta l'attesa per questo sesto album dei ...Trail Of Dead, per lo meno da parte del sottoscritto. Visti i capolavori che ci hanno regalato da una decina d'anni a questa parte, è lecito aspettarsi molto da ogni loro nuova uscita.

Spiace un po' quindi dover mettere subito in chiaro che "The Century Of Self", pur rimanendo su ottimi livelli, fatica a reggere il confronto con i dischi che lo hanno precedeuto. Questo lieve calo va forse imputato a quella tendenza alla pomposità che è sempre stata parte della cifra stilistica dei texani, e che già ai tempi di dischi meravigliosi come "So Divided" faceva storcere il naso a qualche purista. Il fatto è che, mentre prima i nostri riuscivano sempre a tenersi ben al di qua di quella linea che separa il buono dal cattivo gusto, in alcuni brevi episodi di questo disco sembra si perda un po' il senso della misura. Valga come esempio "The Far Pavillion", il brano che più si avvicinerebbe al sound di "Source, Tags & Codes" (2002) se non fosse interrotto verso il finale da una parte orchestrale dai toni epici che sembra un po' buttata lì a caso.

In verità la band non ha mai nascosto le sue ambizioni di grandeur, risultando persino antipatica ad alcuni, ma mai era arrivata a schiaffarci in faccia tanta magliloquenza. Sia chiaro: l'album è comunque un gran bel viaggiare, perchè la classe c'è e si sente, e l'effetto Muse è scongiurato grazie ad una non (ancora) sopita indole punk, come nell'impetuosa "Isis Unveiled". Una punta di manierismo la si nota in ballate come "Luna Park", ma sono casi isolati. La parte del leone la fanno canzoni come "Inland Sea", "Bells Of Creation" o "Pictures Of An Only Child", dove il gruppo da il suo meglio distillando puro pathos da far venire la pelle d'oca. Quando invece tenta di mescolare le carte in tavola vengono fuori perle come "Fields Of Coal", con un ritornello-anthem che sembra cantato da un coro di punk ubriachi di guinness. Altrove si sconfina in territori quasi progressive, con brani articolati che si sviluppano tra saliscendi di dinamiche e lunghe parti strumentali (vedi "Halcyon Days"). Non siamo certo sulla stessa lunghezza d'onda dei Mars Volta, dei quali i nostri non hanno la perizia tecnica, piuttosto emerge più di un punto comune con l'altra band che nacque dalle ceneri degli At The Drive-In, ovvero gli Sparta. In particolare mi riferisco a quel comune operare al crocevia tra indie rock muscoloso, prog e l'epicità degli U2 di metà anni 80.

In definitiva, pur non trattandosi del migliore album dei ...Trail Of Dead, la prova si può dire ampiamente superata. Casomai le perplessità riguardano la direzione futura di Conrad Keeley e soci, perchè l'impressione è che si vada via via raffinando eccessivamente il suono, rischiando di perdere definitivamente la componente più genuina e indie del loro background (impressione per altro confermata dal dvd live incluso nella mia edizione del disco, con esecuzioni di brani vecchi spesso rovinate da tastiere onnipresenti). Oggi più che mai i ...Trail Of Dead sono un'esperienza "take it or leave it", o li si a ama o li si odia, ed io (salvo scivoloni futuri) non ho ancora smesso di amarli.

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