Ricordo la Prima Comunione. Ricordo i lunghi pomeriggi imprigionato nella gabbia del Catechismo; ore passate a inseguire le orme di Cristo, degli Apostoli e dei Santi immacolati, mentre l’unica cosa che volevo era rotolarmi nel fango e scambiare le figurine con gli amici. Ricordo la funzione; il prete, commosso, dava a noi, paffuti cherubini, il corpo del Salvatore riempiendoci lo stomaco di salvezza eterna. Ricordo il rinfresco a fine giornata, in un cascinale. Mi sentivo così impiastricciato, così compresso da esempi edificanti e da buone novelle che sentivo l’irrefrenabile desiderio di liberarmi, di purgarmi da tutta quella melassa cristiana. Così, in solitudine, afferrai una boccetta di sale e, adocchiato un lumacone che pacificamente trotterellava su una foglia di insalata ai margini dell’orto, gliela rovesciai addosso. Si può essere così sadici solo quando si è bambini; ricordo quella povera creatura che letteralmente si sciolse davanti a me, lasciandomi esterrefatto e pieno di un infantile orgoglio luciferino.

Anni dopo, quando lessi per la prima volta “L’Immoralista” e nella prima pagina trovai queste parole: “Potersi liberare è niente; il difficile è saper essere liberi”, l’immagine del povero lumacone mi tornò alla memoria.

Questo breve romanzo che, a mio avviso, è il capolavoro giovanile di Gide, ci mostra un autore che è finalmente pronto a mollare la zavorra della sua educazione puritana e costrittiva e a salpare alla conquista della sua vera essenza, della sua vera identità e del suo vero stile letterario. Vero spartiacque nella sua produzione e largamente autobiografico, il libro racconta la storia di un uomo che, scampato per miracolo alla tubercolosi, riconsidera in toto la sua vita. Nell’immobilità della convalescenza, dove il morbo si propaga dal corpo allo spirito, il protagonista ausculta ogni minima oscillazione del suo essere e, una volta guarito, decide di seguire solamente le leggi della sua “nuova” natura. I freni inibitori imposti da un’ottusa morale religiosa crollano e, pian piano, da topo di biblioteca risorge a satiro sensuale, avido di piaceri e noncurante dei sentimenti altrui.

Naturalmente, un percorso di questo tipo non può che portare all’infelicità; diversa da quella del grigio bibliofilo, ma altrettanto disperata. Questa voracità senza criterio, questa corsa perpetua verso il nulla, questa patetica e meschina fuga da ogni empatia umana, svuotano progressivamente di significato le azioni di quest’uomo che ci comunica sempre con minor entusiasmo gli effetti della sua rinascita, rintuzzando in un' atonalità affettiva degna dello “Straniero” di Camus.

Lo stile è di una scorrevolezza e leggiadria davvero inimitabile; le parole sembrano scivolare sulla pagina e i dubbi esistenziali che l’alter-ego di Gide ci manifesta, penetrano in noi avvolgendoci in calde spirali di vapore. Che diversità dai periodi nervosi e laceranti di Dostoevskij! Laddove il grande scrittore russo riusciva a farci conversare con i suoi personaggi grazie a strappi terrificanti, Gide lo fa accarezzandoci ed ammaliandoci con parole preziose ed ironie sottili e velenose.

Credo infine che il protagonista dell’ “Immoralista” (da notare che il termine suona altrettanto sgradevolmente di “moralista”) sia anche una specie di padre putativo di quello Swann che nella “Recherche...” proustiana simboleggiava, tra le altre cose, il pericolo di una vita dissoluta e comoda, colma solo di stravizi e trastulli, che a lungo andare seppellisce la creatività artistica e la ricerca di una vita davvero assonante con il proprio spirito.

Ricordo che qualche giorno dopo raccontai la mia bravata col lumacone a mio fratello maggiore. Mi aspettavo un rimprovero, ma lo feci solamente sbellicare dalle risate; mi sentii ferito, ma parlarne mi fece bene, alleviò la mia vergogna. Fu un atto di quella “Psicomagia” tanto cara a Jodorowsky che mi liberò il cuore dall’inquietudine. In fondo anche Gide disse “Se non avessi scritto L’Immoralista, lo sarei diventato”.

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