Ci sono pellicole che finiscono nel famoso dimenticatoio, e questo, sinceramente, non dispiace sempre: - certo, un po' infantile la cosa (ma cosa di più infantile dei sogni al Cinema?), come se un film, dicevamo, cui si tiene e si è affezionati rimanesse in un cantuccio, al riparo da sguardi occasionali o non meritevoli e da riscoprire al momento opportuno.

Runaway Train prima di finire nel dimenticatoio non era un film passato in sordina, annotiamolo. Le tre candidature agli Oscar, così come le altre TRE ai Golden Globe nell”86 (di cui una trasformatasi in premio per l’attore protagonista) dicono non poco in merito.

E se ritengo si parli di capolavori, mi piace aggiungerci un perché. Approfondiamo e illustriamo: ad esempio, vi sono i “capolavori mancati” che mantengono comunque un alto livello di riferimento, ma sempre mancati sono. Per il film diretto da Andrey Koncalovskij, aggiungo un perché diverso: “capolavoro nonostante tutto”.

Un soggetto può essere semplice quanto si vuole, e un film avere diverse lacune, ma ecco che se il messaggio trattiene in sé una forza esplosiva, allora la sua portata sarà vasta, al punto di poter trascendere la sceneggiatura se non il film stesso. Per la precisione, il soggetto è di un certo Akira Kurosawa, e forse avremmo già detto tutto; se parliamo, voglio dire, di una di scala di valori di alto registro, quando si discute di Cinema.

Al volo, trama e personaggi:

- da un carcere di massima sicurezza, dove i detenuti sono trattati come animali, due prigionieri riescono a fuggire. Il Direttore del carcere si mette in prima persona per catturare gli evasi e diventa per Lui una questione profondamente personale oltre che di Dovere; dei due fuggitivi è soltanto Manny quello che però vuole veramente, l’osso duro che mai è riuscito a piegare.

Manny (Jon Voight) e Buck (Eric Roberts) si troveranno così ad affrontare i ghiacci e l’inverno rigidissimo di quei posti. Riescono a raggiungere una stazione ferroviaria e a nascondersi in un locomotore con la speranza di raggiungere la libertà. Il treno, che è senza passeggeri - parte, ma un infarto stronca il macchinista: un Deus Ex Machina maligno, e il convoglio ormai è senza controllo il quale prende brutalmente velocità. I fuggitivi saranno individuati e braccati da un elicottero, a bordo lo stesso direttore del carcere Ranken (John P. Ryan), mentre dalle sale di controllo gli operatori cercano disperatamente di fermare in qualche modo e nei modi più assurdi, non solo convenzionali, il treno impazzito. Con loro viaggia, rimanendo gioco/forza "prigioniera" degli eventi, una giovane donna addetta alle manutenzioni che, all’insaputa di tutti, compresi i fuggitivi, si trovava in un altro locomotore. Solo dopo raggiungerà, soprendendoli, i nostri protagonisti. Sara (Rebecca De Mornay), suo malgrado, sarà quindi terribilmente coinvolta nella vicenda…

…il tempo scorrerà inesorabile e li condurrà a un destino che non sarà per tutti il medesimo.

“Il nonostante tutto”:

- questa pellicola è calata profondamente negli anni ’80 e a farne le spese è una colonna sonora sostanzialmente ridicola, ma per fortuna usata con parsimonia e, almeno nei passaggi topici, funziona dando il valore evocativo e portentoso in linea con la liricità dei giusti momenti. In sostanza un lavoro discontinuo e a tratti pacchiano, parlando delle musiche. Poi entra in campo il problema delle plausibilità e ci sono delle leggerezze proprio nella fase introduttiva, peccato. La fuga da un carcere di massima sicurezza non è quella da un convento di suore, questo dovrebbe essere noto a tutti, e - soprattutto - non si può dare allo spettatore una rappresentazione così veridica delle prigioni, quali sono: violente, sospette, cariche di mille tensioni, per poi vedere i Nostri fuggire con un piano a' mo’ di una “Banda Bassotti”. L’ultima nota del «nonostante tutto» riguarda l’antagonista che tallona i nostri “eroi”, giacché le prerogative discutibili e il potere concesso a Ranken fuori dal suo carcere, sono a tratti eccessive e infantilmente permesse. Ecco, quindi, questi sono mancanze non da poco. Paradossalmente a testimoniare - in questo caso - come i capolavori possano essere tali «nonostante tutto», in ragione di un coinvolgimento e di un crescendo notevole che trasfigura ogni cosa in un’epica ben di là del contesto.

L’Opera.

Runaway train è un mostro: vivo, d’acciaio, nero, che si trasforma man mano. Cresce negli occhi degli spettatori e li porta piano in un’allegoria di immenso respiro e non solo evocativo, bensì filosofico. Qui sta l'energia, e la genialità se vogliamo. Il dramma non è sviluppato attraverso la sempiterna battaglia del Bene e del Male, finalmente: No. Gli autori dicono altro …

Akira Kurosawa ed Edward Bunker (quest’ultimo tra gli sceneggiatori) non speculano sulla questione par excellence sopradetta, bensì rifulge anche se in toni cupi, esplode, il lato oscuro dell’uomo inteso nella sua fragilità votata a una trasformazione ineludibile e, sempre poco ci si riflette, all’amore che gli appartiene. Verità così mal valutate, se non addirittura incomprese. Così non fosse, il finale non potrebbe essere tanto struggente lasciandoci un’emozione ancorata allo stomaco la quale non può e non vuole sganciarsi da noi, dopo i titoli di coda. Sul volto di Voight si scolpisce e si rivela - di sequenza in sequenza - la sua anima più profonda, fino a vederla apparire nella sua completezza, soltanto alla fine.

Il Maestro Kurosawa (quella volta regista) già nel ’75 fornì la prova di saper trattare certi temi, quando consegnò al cinema un capolavoro senza se e senza ma: Dersu Uzala. Sicuramente quell’esperienza si riflette dieci anni dopo nei protagonisti di Runaway Train e scorre più audacemente sui binari del nostro treno impazzito.

Dal canto suo, Edward Bunker, non poteva che offrire al regista gli altri colori necessari per dare al film una forza intimista sull’uomo ai margini di sé stesso. Bunker è uno sceneggiatore con un passato di reale criminale alle spalle (basti sapere che ha il triste record di essere stato il più giovane detenuto nel Carcere di San Quintino) e questo ha certo contribuito a che potesse cogliere con malaugurata sensibilità le bassezze dell’animo umano, le sue debolezze ma anche la sua forza più viva, il valore, la sua natura segreta e contraddittoria che si agita nei desideri di ognuno di noi.

Crescendo:

L’energia di questo racconto che diviene poema, vive nella performance raggiunta dall’interpretazione di Voight che ci offre uno spessore e una profondità solo in apparenza inaccessibili, impersonando Manny come credo pochissimi avrebbero potuto in quell'epoca. Il suo personaggio, piano decolla verso una sua personale Armageddon, verso un duello mitico, poi nulla riguarderà più la libertà che potrebbe ottenere fuggendo e, la quale, sembrava dovesse essere ben altro anche per gli spettatori.

Manny, che è arguto - se pur un uomo che ha sempre vissuto il basso della società, non si fa sorprendere dall’arrivo di Ranker che si calerà dall'elicottero sui vagoni in corsa. Manny lo disarmerà e ammanetterà dentro la motrice che comanda l’intero convoglio. Per Ranker sarà una sconfitta totale. in ragione di quello che rappresenta (quale Direttore del carcere e di un Dovere mancato). Non solo non è riuscito a catturare i due evasi, dovrà rimanere impietrito e spiazzato dal fatto che Manny non vuole fermarlo più il treno, anche se ora gli sarebbe possibile premendo solo un pulsante. Perché adesso sarà Ranker a morire da prigioniero, ammanettato a un mostro d’acciaio, così moderno, così tecnologico e ... ingestibile, proprio come il mondo che lascia alle spalle.

Manny inchioderà Ranken a questa verità, dimostrandogli come la libertà che Manny vuole ottenere è di fatto superiore a quella civiltà che Ranken difende in nome di una giustizia ben lontana dall'essere come la civiltà millanta e impone.

Maestria.

Si è parlato degli autori, però non della regia. Ogni cosa a suo tempo, proprio come questa pellicola insegna. Runaway train, in un punto imprecisato della storia e a seconda della sensibilità dello spettatore, piano assume una forza simbolica tale, che pervade e impressiona la vicenda sino a eclissare tutto ciò che quei personaggi ci dicevano in origine. Qui sta il tocco del regista.

La regia ha sfruttato le energie che erano intrinseche al soggetto di Kurosawa, che, come un fuoco sotto la cenere, ha infiammato i significati sottesi di quella che a tutti gli effetti è una tragedia greca. I momenti violenti tra Buck e Manny non per niente possono essere quelli di un discepolo disilluso dal suo mentore, dell’ingenuità presente nelle persone violente e abbandonate, di chi non riesce più a cogliere i significati grotteschi e ironici dell’esistenza, del nostro bisogno di eroi da eguagliare, fossero pure i più negativi; mentre la figura di Sara è e sarà centrale in ogni senso - e, proprio attraverso i suoi occhi, potremo decifrare i contrasti che altri autori tratterebbero con collaudato manicheismo e superficialità. Si pensi, ad esempio, a come la cifra filosofica e drammatica sia elaborata eccezionalmente attraverso un film d’azione. Scusate se è poco. Ed è un film d'azione, ribadiamolo: dall'inizio alla fine.

Lo stilismo di Koncalovskij costretto in piccoli spazi e alternato con riprese esterne - sempre a inseguire qualcosa o qualcuno, dice della maestria di un occhio invisibile che mai è colto in errore, mai perde la sua forza intima. Soprattutto, e rimanga di monito, dimostra l’inettitudine del “cinema” che va per la maggiore in questa decade penosa, con registi che non sono capaci di concepire l’azione e la violenza con stile maturo, negando alle inquadrature il respiro e la pace necessaria per cogliere la profondità delle tensioni.

Memorabile Manny quando, come una belva, pesta a sangue Buck e si ferma solo per le implorazioni di pietà urlategli da Sara. Manny darà inauditi significati alle parole “animale” e “uomo”, portandole entrambe in un’altra dimensione. Il biglietto al cinema varrebbe per questa scena. Guardatelo.

Non c'è belva tanto feroce che non abbia un briciolo di pietà. Ma io non ne ho alcuno, quindi non sono una belva. (Riccardo III – Shakespeare)

Manny sarà inquadrato l’ultima volta mentre sul tetto della locomotiva lotta contro il vento e la bufera, per affrontare - in piedi e a braccia aperte - la morte. Le inquadrature dei suoi amici in carcere, dietro le sbarre, in primo piano, con i sorrisi confusi dalle cicatrici, si alterneranno con quelle di Manny sopra la locomotiva che si perde per sempre nella bufera. Come gli avevano promesso prima che fuggisse, il loro spirito e la loro anima sarebbero vissuti con lui se avesse conquistato la libertà.

Manny, prima di unire il suo destino a quello del suo nemico, riuscirà a sganciare il vagone dove Buck e Sara sono abbracciati e ormai rassegnati, salvandoli così dalla morte. Le urla di Buck che chiama Manny quando si accorge del sacrificio del suo eroe, implorandolo di non andarsene perché era insieme che dovevano fuggire, insieme che dovevano farcela, sono disperate come quelle di un figlio che vede il padre morire. Da annodare lo stomaco.

Con Manny, Buck, Sara e Ranken, rimaniamo sospesi nell’epopea di un vero Antieroe e, nell'anima, che man mano la pellicola percorre insieme ai binari di una ferrovia senza senso, sarà impressa una macchia nera, deformata, che attraversa montagne e paesaggi bianchi, desolati, come un mostro che divora chi lo avvicina e lo trasforma in altro.

Carico i commenti... con calma