L'Apocalisse, sbadigliando...

Sta succedendo la fine del mondo, e sul serio, là fuori, ma noi, gente di spirito arguto, noi che siamo eleganti e raffinati, sappiamo di non aver tempo per queste inezie. Non abbiamo paura, noi. Siamo perfettamente calmi. Vogliamo star qui ancora un po', invece, a goderci quei piaceri di cui, a saperli apprezzare, la vita è tutt'altro che avara. A tutto questo rumore poi, e all'Apocalisse, o fine del mondo che dir si voglia, che avanza minacciosa fuori dalla nostra finestra, noi rispondiamo con un beato e beffardo sbadiglio...

Non dissimile da quella appena descritta dev'essere stata l'immagine ispiratrice sulla quale Andrew Bird ha sviluppato l'ultimo suo album, "Armchair Apocrypha", uscito nel marzo di quest'anno con la nuova (per lui) etichetta Fat Possum. Andrew Bird, polistrumentista (violino, chitarra, glockenspiel), nato a Chicago nel 1973, già esponente della scena alternative statunitense con il suo precedente gruppo the Bowl of Fire, ha provato, in questo nuovo lavoro, una chiave compositiva impostata sulla rilassatezza, sia melodica che testuale. Il risultato è una maggiore coesione e omogeneità tra le dodici tracce che compongono l'album, rispetto ai precedenti lavori, il penultimo dei quali, "The Mysterious Production of Eggs", era uscito nel 2005.

Il brano di apertura, "Fiery Crash", con l'accattivante fraseggio di piano elettrico, chitarra amplificata, e batteria che attacca con delle rullate in souplesse per farsi via via sempre più esigente, è un brillante bigliettino da visita per tutto l'album. Il secondo brano, "Imitosis", è una rielaborazione di "I", tratto dall'album del 2003 "Weather Systems": ascoltabile, ma chi già conosce il brano di provenienza rimarrà forse un po' perplesso di fronte a questa passione di Bird per l'autocitazione. Già in "The Mysterious Production of Eggs", infatti, era contenuta "Skin Is, My", rivisitazione di "Skin", compresa anch'essa in "Weather Systems".

Con il terzo brano Bird ci convince però definitivamente dell'elevato valore di quest'album. La traccia s'intitola "Plasticities": "plasticità" al plurale, ma anche, forse, "città di plastica". La prima interpretazione del termine fa riferimento al carattere cangiante e multiforme della melodia di questo pezzo, che viene plasmata e messa in movimento, in particolare nel chorus, dal magnetico riff di chitarra elettrica e dalla voce di Bird che guizza tra le righe del pentagramma come un delfino dentro e fuori le onde del mare, modulando questi versi: "we'll fight we'll / we'll fight for your music halls / and dying cities / they'll fight they'll fight / for your neural walls / and plasticities / and precious territory" (combatteremo, noi combatteremo per le vostre sale da concerto / e per le città morenti / combatteranno, loro combatteranno / per le vostre reti neurali / e per le plasti-città / e per il prezioso territorio). I testi in tutto l'album sono colti ed ironici: nel caso appena citato, per esempio, Bird gioca con la pronuncia di "we'll fight", da lui alterata in "whale fight", come a dire che tutto il daffare per avere spazi dove fare musica, città ordinate (anche se di plastica!), e cervelli sempre più performativi, si risolve alla fine nient'altro che in un combattimento di balene (sic!).

Il brano più sorprendente dell'album è probabilmente "Armchairs", costruzione sontuosa come un palazzo neoclassico, che tuttavia riesce a mantenersi leggera e dinamica per tutti i sette minuti della sua accattivante durata, nei quali passa attraverso continui cambi di melodia. In altri brani, come "Heretics", spicca l'eccellente lavoro del batterista Martin Dosh, che in quest'album è anche alle tastiere, nonché co-autore di alcune delle tracce.

Esatto, millimetrico il mixaggio, realizzato ai Pachyderm Studios di Cannon Falls (Minnesota), mette ogni suono al posto giusto sotto il cantato di Bird, ora deciso, ora sospirato e sussurrato, ottimamente coadiuvato, come nel citato "Fiery Crash", dal contrappunto di Haley Bonar, giovanissima cantante country pop dal Minnesota che può già vantare un proprio repertorio da solista. Ricco il tono di chitarre e piano elettrico e delle preziose inserzioni del violino, strumento prediletto e suonato da Bird. La dinamica delle melodie, il calore e la profondità del suono globale sono comunque merito delle tastiere Rhodes e Wurlitzer di Dosh.

Una nota a parte va dedicata al fischiettio, o whistling che dir si voglia, così amato da Bird, e a cui ha ormai abituato i propri estimatori. Bird fischietta un po' dovunque sui propri brani, usando il fischio labiale alla stessa stregua di un qualsiasi altro strumento musicale. Può piacere oppure no, alcune volte risulta a mio avviso ridondante, come in "Simple X", altre volte è efficace, come nell'intro di "Darkmatter".

Un accenno merita la notevole "Schityan Empires", in cui Bird parla di oscure civiltà antiche e di cavalieri dell'Apocalisse, mentre la musica "segue" il testo, evidenziandone i punti nodali. Due gli strumentali: un raffinato e breve "The Supine" e un altro con l'onere di chiudere questo pregevole lavoro, "Yawny at the Apocalypse", dove su soavi echi campestri si dipanano i sereni e distesi accordi del violino di Bird, come il risveglio di un bimbo in un fresco mattino.

"Armchair Apocrypha" è un ulteriore significativo lavoro di Andrew Bird. Dopo sei album da studio, poteva sembrare che le sue doti di autore di testi e musiche, nonché di straordinario interprete nei suoi live show, avessero esaurito il margine per successivi sviluppi. E che avrebbe continuato, come molti, a riproporre una formula musicale collaudata e capace di garantirgli l'apprezzamento del consolidato uditorio. E invece no. Ogni tanto, le impressioni ingannano. Nel caso di questo album, ciò è sicuramente un piacere.

Andrew Bird, "Armchair Apocrypha", Fat Possum, 2007

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