Il 6 agosto 1979 due giovanissime band, non ancora giunte alla pubblicazione dei rispettivi debut album, si divisero il palco del Music Machine di Londra.

I primi a esibirsi furono proprio gli Angel Witch. I secondi, una giovane band del cui bassista, un certo Steve Harris, si diceva fosse un vero fenomeno. Nel giro di qualche anno, le due band non avrebbero mai più potuto incrociarsi su di un palco: i secondi perché impegnati in qualche tour mondiale, i primi perché ormai diventati poco più che un ricordo.

“Angel Witch” esce nel 1980 sotto etichetta Bronze ed è una creatura tanto bella quanto triste, inquietante e malinconica. Vestita coi colori dell’inferno, eppure così brillante da non farsi offuscare dal trascorrere del tempo. Nato dalla mente, dalle dita e dal cuore di una delle prede favorite degli sbalzi umorali del destino (Kevin Heybourne, cantante e chitarrista), questo disco è unanimemente considerato tra gli episodi più lucidi e riusciti di tutta la NWOBHM, eguagliato solo da una manciata di altri album (leggasi “Lighting to the Nation”, “On Through The Night”, i primi Maiden.. ).

Dischi come questo vengono di solito definiti “seminali” o “imprescindibili”… beh, a rischio di farla fuori dal vaso, direi che “necessario” può ritenersi altrettanto consono. Necessario per l’originalità, l’ispirazione e l’influenza di alcune soluzioni musicali e grafiche (a partire dalla copertina satanassa: il quadro di John Martin, “The Fallen Angels Entering Pandemonium”), oltre che per l’approccio alle tematiche affrontate nei testi: l’incubo e l’occulto, la stregoneria e il mistero, letti, però, in una chiave per lo più romantica, onirica e passionale. Un puzzle sicuramente raffinato, quindi, ma diretto ed immediato, un magico agglomerato di elementi sonori e visivi tra i più disparati, che ispirerà intere generazioni metallare a venire.

Gli spunti e le fonti sono rintracciabili un po’ dovunque, a livello musicale e non solo: l’attacco di “Sweet Danger” è quasi una seconda “Bastille Day” dei Rush, la splendida “Sorcerers” sembra essere frutto della stessa mente che ha partorito “Rememeber Tomorrow”, e poi i Black Sabbath nella strumentale “Devils Tower”, i libri di Dennis Wheatly, fino ad una paziente del manicomio dove Heybourne faceva il portiere (che gli ispirerà il testo di “White Witch”). Eppure tutto questo non sarebbe stato sufficiente. Ci voleva la voce di Heybourne, forse non eccezionale a livello tecnico, ma malinconica e sofferta, perennemente preda di una tristezza recondita, pronta però, all’occorrenza, a farsi tagliente e roca, aspra e abrasiva. Ci volevano quei riff di chitarra (relegati quasi in secondo piano da una produzione affidata all’ allora esordiente Martin Smith), efficacissimi nella loro semplicità. Ci volevano, soprattutto, quei continui cambi di registro cha spaziano dalle atmosfere orrorifiche dell’incubo a occhi aperti di “Angel of Death”, passando per l’attacco della leggendaria opener (geniale nella propria immediatezza), fino al devoto romanticismo a tinte fosche di “Sorcerers”.

Il coraggio, insomma, di esplorare (ma forse sarebbe più corretto dire “inventare”) il metal in tutte le sue sfaccettature, da quelle più catchy e coinvolgenti, quasi hard rock-oriented, di “Confused”, fino a quelle più intimiste della power ballad “Free Man”. Come anticipato, però, non era destino che Heybourne e gli Angel Witch raggiungessero il successo. Poco dopo l’ uscita dell’EP “Loser” nell’81, Dave Hogg (batteria) e Kevin Skids (basso) lasceranno la band. Ciò avrebbe dato il via ad una girandola di formazioni, cambi di line up, sporadiche (e non sempre riuscitissime) esibizioni live che, invece di mantenere vivo l’interesse del pubblico, avrebbero rischiato di sminuire quanto fatto da una band e dal suo leader per il metal.

Numerosi saranno i live e le raccolte. Dignitosi i successivi album di inediti. Nessuno, però, riuscirà ad eguagliare l’accarezzata perfezione del debutto.

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