Come per la stragrande maggioranza dei musicisti, anche per Angelo Branduardi l'epoca di massimo splendore è stata un periodo relativamente breve e circoscritto in un preciso arco di tempo: 1975-1979, "La Luna", "Alla Fiera Dell'Est", "La Pulce d'Acqua" e "Cogli la Prima Mela", questo è il Branduardi classico, quello indimenticabile, il migliore di sempre. Concluso questo ciclo, il musicista lombardo ha vissuto una carriera di relativi alti e bassi, sempre e comunque nell'ambito di una produzione di buona/ottima qualità complessiva. Il primo tentativo di semplificare il suo stile e "smarcarsi" dal folk barocco/medievaleggiante che l'aveva reso famoso è stato un album abbastanza scialbo come "Branduardi ‘81", poi l'ottimo "Cercando l'Oro", il felice esperimento elegiaco di "Branduardi Canta Yeats" e il coraggioso ma a tratti debole "Pane e Rose".

Proprio "Pane e Rose" fornisce un efficace ritratto di questo Branduardi "sperimentale", che per la prima volta affronta tematiche spiccatamente sociali e di attualità, con le stupende "1° aprile 1965" e "Miracolo a Goiania" e si barcamena tra introspezione ("Il primo della classe", "Pioggia", "L'albero") e tentativi di pop etnico con esiti abbastanza bislacchi, con la sola eccezione di "Tango". Tempo due anni e il riccioluto menestrello dimostra di aver imparato bene la lezione, elimina i rami morti del precedente album, ergo gli estemporanei e un po' pacchiani esperimenti di sound brasileiro e ottantiano estranei alla sua sfera musicale e se ne esce con quello che è a mio avviso il suo miglior disco dopo quelli del già citato periodo "classico": spiazzante, unico, "Il Ladro". Il bellissimo ritratto stilizzato in copertina dice molto su quello che "Il Ladro" propone: un Branduardi pensoso ed enigmatico: colori caldi per i tratti del viso, bianco e celeste per la folta capigliatura, che spiccano su uno sfondo cupo e plumbeo. Questo non è un album facile, è un ascolto "pesante" perché fortemente introspettivo e carico di riflessioni; non si sono momenti allegri e positivi, la musica è a tratti sognante e delicata, perfettamente modellata sulla voce sottile e suggestiva di Branduardi, che canta con pathos e delicatezza testi non facili, di rara e struggente bellezza.

Il brano che dà il titolo all'album è un enigmatico quadretto noir: atmosfere notturne, voce esitante, sospirata, ritmi cadenzati; traspare una presenza inquietante ed incorporea, inafferrabile ed umbratile, sospesa tra sogno e realtà, "Madame", "Il tempo di partire" e "Il grido" accentuano ulteriormente questa connotazione cupa: canzoni di inquietudine, amarezza, smarrimento, sempre ben sostenute dagli arrangiamenti, "Bella faccia" è una ballata estremamente intensa e vibrante nella sua malinconia e delicatezza, "resteremo da soli a guardare la sera, senza parlare, non saremo mai vecchi, ti proteggerò dal dolore e dalla noia" canta Branduardi nel ritornello; questo è forse l'unico raggio di sole dell'album; un raggio di sole al tramonto, fioco e timido, per il resto "Il Ladro" parla fondamentalmente di miserie umane, vite senza gioia e sentimenti, quelle degli "Uomini di passaggio" e la sconfitta e la rassegnazione di una malinconica "Ballerina". Con "Amazzonia" Branduardi torna in Brasile, ma se in "Miracolo a Goiania" la tragedia era stata celata dietro una musica gioiosa e solare, qui si manifesta apertamente, la melodia è orecchiabile e ritmata, dolce, ma lascia dentro una tristezza rassegnata, un ineluttabile senso di vuoto, dove prima c'era la foresta, la vita, ora "solo polvere per noi, solo cenere negli occhi, quello che ora noi mangiamo non è mandarino, non è mango, non è papaia, non è melone giallo"; "Il bambino dei topi" propone con esemplare tatto e sensibilità un tema come quello dell'alienazione; il misterioso bambino ermeticamente chiuso in sé stesso ed irrimediabilmente confinato nel proprio mondo è sicuramente l'immagine più forte di questo disco, grazie anche al soffuso e minimale arrangiamento elettronico che esalta al massimo l'aspetto lirico del brano. "Ai confini dell'Asia", è infine l'ultimo colpo di teatro, senza una meta sicura, tra paesaggi confusi, "indistinti nella nebbia", in fuga da una città "dove a fatica si respira, dove al crepuscolo la gente si affaccia pallida ai balconi".

Sottovalutatissimo e spesso ignorato, "Il Ladro" è senza dubbio l'ultimo grande colpo di coda di Angelo Branduardi, l'ultimo lascito di assoluto valore: da lì in poi album poco più che discreti e tanto, tanto mestiere. Questo è un disco irripetibile per ammissione dello stesso artista, fortemente influenzato dallo stile del tastierista e produttore Marco Canepa, e decisamente troppo poco allineato, troppo diverso dal menestrello che siamo abituati a conoscere, l'inusuale, dolente e affascinante lato "oscuro" di Angelo Branduardi, che come un ladro agisce nella notte, quando i sogni si confondono con la realtà, e poi svanisce senza lasciare traccia, inafferrabile ed umbratile.

Carico i commenti... con calma