E' curioso come un "incidente" di shopping on line abbia risvegliato in me la passione per la musica indiana. Vago su ITunes, sezione world music e, ascoltando qua e là, decido di acquistare alcuni pezzi con l'intento di trascorrere una serata piovosa in completo relax new age.

Il mio sguardo si dirige su un'antologia di musica tradizionale indiana; ne ascolto alcuni samples e decido di acquistare solamente uno o due brani ma, ahimè, distrattamente mi scappa il clic traditore sul bottoncino "acquista album" e mi pago la bellezza di 39 euro di antologia (in doppio cd 79 euro): ormai il mio shopping musicale compulsivo sembra bello che finito. Inizio ad ascoltare il mio involontario e costoso acquisto e mentre passa il tempo, tra estasi e godimento ed un certo sollievo, mi rendo conto di aver dimenticato per troppo tempo la musica indiana, già opportunamente apprezzata in tempi remoti, grazie al Maestro Ravi Shankar, che non credo abbia bisogno di presentazioni, specie per i beatlemaniaci. Nell'ultimo ventennio, grazie alla diffusione della world music e a una miriade di melodie new age, contaminate dall'elettronica e chillout, dal pop, dal rock e dalla black music. Non è il caso di questa raccolta, che comprende melodie, i raga, che fanno parte del repertorio puramente classico e tradizionale indiano, le cui radici sono da cercare proprio nel Nord di questa immensa nazione.

Si pensa subito al sitar quando si parla di musica indiana, della quale è lo strumento per eccellenza e assoluta star, senza dimenticare il loro tipico tamburo, il tabla, e contrariamente alla musica della parte meridionale dell'India, di origine carnatica, che dà risalto alla parte vocale, nella musica del Nord di origine hindustana si predilige proprio la parte strumentale; non sembra essere però una regola dogmatica poiché questa antologia comprende melodie e suoni di antichissima origine, eseguite da calde e intonate voci maschili e femminili, sublimate dall'assoluto magnetismo trascendentale del sitar. Il battito primitivo del tabla scandisce il ritmo di ogni raga, variandolo repentinamente da lento e imponente ad agile e convulso. Nell'impostazione stilistica di ogni brano si coglie chiaramente l'influenza araba, frutto di 8 secoli di dominazione, si odono voci che si articolano in nenie che sembrano d'amore alcune, di guerra altre, magari di vita quotidiana, preghiere, voci che appaiono quasi appassionate e carnali, talvolta indolenti e delicate, esaltate dalle sublimi contorsioni del sitar, pervase da ammaliante spiritualità.

Queste sonorità si apprezzano e assimilano possibilmente in beata solitudine, per impadronirsi di nuovo di se stessi e liberarsi dallo stress quotidiano, magari mentre si sorseggia un buon tè nero in qualche posto fumoso e profumato di incensi (in mancanza di meglio, il proprio salotto). E poi chiudere gli occhi, immaginarsi davanti a danzatrici sorridenti con labbra scarlatte e con gli occhi truccatissimi di khol, spalancati, con le iridi scure che roteano in tutte le direzioni, mentre ci rapiscono la mente e, perché no, anche il cuore, con la loro affascinante mimica.

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