Majakovskij mi è sempre piaciuto. E’ come una continuazione di Dostoevskij. O meglio, è una lirica scritta da qualcuno dei suoi personaggi più inquieti. […] Che talento travolgente! Come riesce a dire tutto, una volta per sempre, in modo implacabile e assolutamente coerente.” (Boris Leonidovič Pasternak, Il Dottor Zivago).

Credo nelle affinità elettive, credo nelle energie invisibili, imponderabili ed inesprimibili che possono serrare a doppia mandata il percorso di alcuni uomini, e ci credo al di là del tempo e dello spazio, della lingua e della cultura, del percorso intellettuale e dell’afflato mistico. Ci credo in ragione dei loro passi compiuti nel mondo, dei loro atti compiuti in questa cosa chiamata vita (i famosi “atti degli apostoli” postulati da Henry Miller).

Antonin Artaud è stato un artista dal multiforme ingegno. Poeta tra i più visionari del ‘900 e indiscutibilmente uno di quegli “orribili lavoratori” di cui Arthur Rimbaud auspicava la nascita nella famosa “Lettera del Veggente”, attore dal talento cristallino (da tramandare ai posteri la sua interpretazione nel capolavoro di Dreyer, “La passion de Jeanne d'Arc”), drammaturgo e rivoluzionario teorico teatrale che, con il suo libro “Il Teatro e il Suo Doppio”, ha scrollato tutte quelle stantie consuetudini sceniche, tutti quei sedimenti polverosi che appestavano la scena dai ormai troppo tempo.

Un uomo dalle innumerevoli e incalcolabili risorse artistiche, afflitto anche da una violenta ed inguaribile sindrome schizofrenica che lo portò ad un periodo di internamento nella clinica di Rodez durato 9 anni, durante i quali subì all’incirca 48 (quarantotto!) sedute di elettroshock .

Van Gogh, beh…Van Gogh non ha certo bisogno di presentazioni, ma mi permetto di aggiungere una piccola postilla; tra tutte le cose che sapete di lui, metteteci anche questa: Antonin Artaud fu indubbiamente uno dei suoi più autentici fratelli di sangue.

Questa cosa, il Maestro francese l'ha sempre sentita, e la sentiva non vagamente o indirettamente, ma gli era impressa nella carne, negli spasmi dei suoi muscoli, nella bile che vomitava sul mondo.

Quando gli portarono un articolo di uno psichiatra che parlava di Vincent dal mero lato patologico, Artaud, nell’ultimo anno della sua vita, decise di scrivere un saggio che riabilitasse il Maestro olandese in termini non soltanto artistici, ma, soprattutto, in termini umani, mostrando che l’illuminato Van Gogh è stato “semplicemente” soggiogato dalla forza d’ inerzia di un’ottusa società borghese che, non accettando e non capendo ciò egli si sforzava di comunicare, “Cancellò in lui la coscienza soprannaturale che egli aveva appena assunto, e, come un’inondazione di corvi neri nelle fibre del suo albero interno, lo sommerse con un ultimo sobbalzo e, prendendo il suo posto, lo uccise, lo suicidò”.

Proprio così, lo suicidò. “Si introdusse nel suo corpo, questa società assolta, consacrata, santificata e invasata” e, attraverso un inconscio rito magico collettivo, lo suicidò. Non lo portò al suicidio, lo suicidò.

Ho detto che questo libro è un saggio? No, non lo è. E per varie ragioni.

Questo libro è un travaso di bile, è l’ultimo ruggito di una belva braccata senza pietà che, nel suo ultimo spasimo di dolore, si apre letteralmente il ventre mostrandoci la verità delle sue viscere insanguinate, del suo nero sangue che macchia il terreno.

No, non è un saggio. E’ un visionario che parla di un altro visionario, e lo fa con una chiarezza sconcertante, con una violenza e un’ illuminazione che nessun altro libro su Van Gogh potrebbe mai raggiungere: “Van Gogh era giunto a quello stadio di illuminazione in cui il pensiero in disordine rifluisce davanti alle scariche invadenti e in cui pensare non è più logorarsi, e semplicemente non è più, e in cui non resta che raccogliere corpo, voglio dire AMMUCCHIARE CORPI”.

No, non è decisamente soltanto un saggio. E’ un’accusa sovrumana a questo mondo dove “si mangia ogni giorno vagina cotta in salsa verde o sesso di neonato flagellato e aizzato alla rabbia”, un mondo insano e demente che si è permesso di giudicare pazzo Van Gogh semplicemente perché non rientrava nelle sue fila ipocrite e malvagie.

L’ accusa non è politica o sociale, ma è, come sempre negli scritti di Artaud, molto più radicale. Van Gogh è stato la vittima sacrificale di un rito magico in cui la società, per proteggere se stessa e il suo ordine dissennato, “Ha un interesse capitale a non venir fuori dalla propria malattia. E’ così che una società tarata ha inventato la psichiatria per difendersi dalle investigazioni di certe lucide menti superiori le cui facoltà divinatorie la infastidivano”.

Sapete cos’è questo libro? E’ un esorcismo. Un disperato atto di liberazione, di purificazione, di evacuazione dal proprio corpo di tutte quelle energie marce, diaboliche, putrescenti ed ebeti che possedettero il corpo di Van Gogh e che lo suicidarono. Energie che Artaud sentiva anche dentro di sé.

Come Pasternak sentiva che Majakovskij fosse un emanazione dell’opera di Dostoevskij, Artaud che parla di Van Gogh ha lo stesso effetto di un personaggio che si staccasse dalla tela e parlasse a noi del mondo in cui vive, del mondo ri-creato dal Maestro olandese.

Pare che le ultime parole di Van Gogh, quelle dette un attimo prima di morire, siano state “Ora vorrei tornare.” Tornare dove? Artaud mi pare l’unico ad essersi avvicinato al mistero.

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