Il Teatro degli Arcimboldi è tutto esaurito da giorni. Non è rimasta mezza poltrona libera né per lo spettacolo pomeridiano, né per quelli serali. Io sono uno dei fortunati ad essere riuscito a trovare due biglietti per due posti vicini, cosa non scontata, dato che diverse coppie si sono dovute separare davanti ai nostri occhi, sedendosi accanto a sconosciuti. Non che sia un problema, intendiamoci.

Alle ore sedici, puntuale come un orologio svizzero, compare sul palco il nostro eroe, senza indosso ancora alcuna maschera. Ci sono soltanto lui e un riflettore, che lo guida dal buio delle quinte a quello del palco, che poi si accende tra lo scroscio degli applausi.

Antonio inizia con un monologo un po’ lento e intorpidito, poi arriva la sua spalla, una valigia rossa. E iniziamo a ridere a crepapelle. Ancora il faro che lo inghiotte, poi le quinte sputano una poltrona mobile e il suo occupante: il “Ministro della Paura”. Ci parla in modo esilarante di come la paura ci appartenga e sia parte di noi, poi arrivano allusioni deliranti, movimenti del corpo e battute ad effetto. I cambi d’abito sono incredibilmente veloci, ci ricordano che Antonio Albanese non è Arturo Brachetti ma che potrebbe essere uscito dalla sua scuola. Ci troviamo al cospetto di “Alex Drastico”, che non fa in tempo a dire nulla, la sola camminata ci fa sobbalzare sulla poltrona. Una grattatina alla “targa” (come chiama lui il posteriore) perché “le mutande in vipera prevedono anche i dentini” e non respiriamo già più, siamo in apnea. Il racconto ci coinvolge tutti, poi si arma di battute in spudorato accento siculo, che ci fanno dubitare che sotto la camicia dai bottoni che stanno per esplodere ci sia un attore lecchese. Si chiude con una morale molto profonda sulla mafia e l’omertà. Ci asciughiamo le lacrime frutto delle risate, riflettiamo e riprendiamo fiato. Ma non c’è tempo. Arriva l’ingegner “Ivo Perego”. Dalla Sicilia alla Lombardia, ricordando i protagonisti de “La Fame e la sete”, che in quel mitico lungometraggio erano due fratelli gemelli molto distanti. Qui Albanese è costretto, suo malgrado, a fare una pausa. Ride lui, ridiamo noi e per noi si tratta di un eufemismo. Sarà quella grottesca milanesità proposta consciamente nel cuore della città meneghina, sarà la bravura di quel genio di attore ma ogni battuta ed ammiccamento ci porta a ridere come poche volte ci siamo ricordati di aver fatto nella vita.

Siamo quasi alla fine e arriva il mio preferito in assoluto. Colui che ha riempito la pellicola de “L’Uomo d’acqua dolce”, che è nei cuori di tutti, che parla poco ma lo fa come nessun altro: “Epifanio Gilardi”. Per lui sono soprattutto tanti baci lanciati al pubblico. Un gabbiano, una palla tirata a canestro, un lancio dietro la schiena. Baci, su baci, il labbro inferiore prominente e il pollice che aggiusta gli occhiali spingendoli verso la parte alta del naso. Poi la mano all’insù: “Come va?” Epifanio nasce come mimo, come personaggio muto e il monologo è più breve del previsto ma arriva dritto al cuore. Non prima di averci dato un’iniezione fulminante di nostalgia e averci fatto ridere e sorridere. Perché sarà strano ma è così, Epifanio. Oltre ad essere un tenero, ha il potere di ricordarci come passa veloce il tempo e il valore che hanno le parole.

Delirio con “Cetto La Qualunque”, che arriva con il suo banchetto armato di tricolore. Prima di entrare nel personaggio, Albanese ci racconta alcuni aneddoti legati alla storia dello strambo imprenditore calabrese aspirante eletto, cose che non tutti sanno. Ci coinvolge, sembra una chiacchierata tra amici. Dice che non gli è mai piaciuto indossare quella stupida parrucca ma che riesce a farlo grazie ad un amico, il quale gli ricorda ogni volta quanto lo faccia somigliare a Gérard Depardieu. Magra consolazione, no? Dieci minuti a braccio, poi giro di chiave e si parte. Si ride consapevoli che ci sia ben poco di inventato, come ci ricorda il buon Cetto al grido di "Cchiù pilu pe' tutti!"

Antonio abbandona la parruccona da Depardieu, il banchetto e i panni di Cetto poi corre sul palco, ci ringrazia e di fatto ci mette il dubbio che sia tutto davvero finito. Nessuno si alza, vedo muoversi qualche cappotto ma passa poco tempo e il nostro eroe torna sul palco, indossando gli inconfondibili panni del “Sommelier”, con l’immancabile tastevin e il carrellino carico di vino. Un ultimo pezzo dalla chiusura tanto esilarante quanto inebriante

Qualche battuta che esula dall’ultimo personaggio, i veri ringraziamenti e si chiude. Luci in sala e tutti in piedi, con le mani che si schiaffeggiano e le bocche sorridenti che mostrano tutti i denti a disposizione.

“Personaggi” è un one man show incredibile, soprattutto per il suo geniale inteprete. Antonio Albenese è solo sul palco, senza tecnologia o fronzoli, guidato soltanto da quel riflettore dalla luce bianca che lo illumina oltre le quinte. La sua dimestichezza con le maschere che indossa e alle quali da un’identità ci fa capire che gli sono cucite addosso da sempre, benché la cosa non sia sempre garanzia di qualità per un artista.

I tempi comici perfetti, la capacità di relazionarsi con il pubblico amico e l’astuzia nel coniugare recitazione ed improvvisazione rendono Antonio Albanese un vero animale da palcoscenico. Ho sempre ritenuto, ed è un parere personale, che Albanese renda al meglio indossando gli abiti dei suoi personaggi più riusciti. Privo di maschera e davanti alla cinepresa, rimane un dotatissimo attore, che da però la sensazione di essere a tratti incompleto. Non a caso è il teatro il suo luogo natio e questa non è una mia valutazione.

Tra un film e l’altro, non vedo già l’ora di rivederlo su quel palco. Con il suo unico grande talento e le sue mille sfaccettature.

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