Non pensate che sia jazz. Che “jazz è il nome che i bianchi han dato alla musica dei neri”

E allora...

Cinque percussionisti e un sassofonista nel chiuso di una stanza punteggiata di stelle che stelle poi non sono. Che questo non è il cielo, è il qui e ora.

Trance, suono posseduto, impossibile e furioso yin yang tra Afrobeat e un chissà cosa che va da tutte le parti. Un battito continuo, implacabile necessario, un continuo uscir dai confini.

Due concetti, due frasi, due stelle polari: “il ritmo è il mio centro” e “io suono per chi soffre”. Fino a che non sono più frasi e sei dentro a una cosa, nel senso che di quella cosa fai parte.

Stop...

Respira. Stai fermo un giro.

Due minuti d'attesa, il quasi niente di una marcetta free. Sacra irriverenza che fa danni persino su un mood di sorniona e divertita eleganza. Fine del lato uno.

Sintesi: sarebbe bello essere una nota di questa musica, sarebbe bello essere vivi.

Inizio del lato due, non male, ma un colpo di dadi mi riporta all'inizio, in quella stanza piena di stelle che stelle non sono. Troppo bella (troppo magica) (troppo tutto) quell'unione di Africa e Jazz, anzi di Africa e Africa.

Visione sostenuta dal ritmo, due purezze a braccetto, due soldi bucati in tasca. Con Shepp che (folle, rabbioso, sanguigno) sputa via i suoi demoni, una “raccapricciante massa d'urto” che ringhia, urla, singhiozza, guaisce.

E con gli uomini tamburo che, pur obbedendo a un rigidissimo schema, costruiscono una sorta di primigenio spazio di libertà.

Stop.

Respira. Stai fermo un giro.

Ok, adesso puoi tornare al lato due: c'è molta meno Africa, ma bellissima, bellissima è la furia...

Bellissima...

La furia...quella cosa folle, rabbiosa, sanguigna...quella delizia spernacchiante...

“Io suono musica che parla della mia morte per mano vostra ma esulto perché, vostro malgrado, sono vivo”

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