25 maggio 2018, non poteva essere una data migliore per la musica: tre dragoni del rock progressivo moderno, Arena, Subsignal e Spock’s Beard pubblicano in contemporanea il nuovo album.
Partiamo dagli Arena (poi proseguirò con gli altri due, tempo al tempo…). Proprio a vent’anni da “The Visitor” (rimasterizzato per l’occasione) viene palesemente riciclato il titolo “Double Vision”, che già dava il titolo alla terza traccia di quell’album. Probabilmente non si tratta di una casualità, di sicuro in molti avranno pensato che ciò potesse essere un preludio ad un ritorno alle origini (primi 3 album), quando il sound della band era meno oscuro e più sinfonico e romantico; invece la direzione prosegue su quel prog oscuro e dai suoni un tantino duri e spigolosi (senza mai però davvero arrivare a punte hard rock/metal) inaugurato già nel 2000 con “Immortal?” e proseguito e rafforzato nel corso degli anni. Nel precedente disco “The Unquiet Sky” si era raggiunta a mio avviso una notevole maturità di suono e di idee, fu uno dei miei ascolti top del 2015. Qui la band di Clive Nolan punta su brani apparentemente più lineari ed accessibili, votati ad una non troppo rigida forma canzone; un sound che appare molto semplificato, senza un grande dinamismo strumentale, senza quindi troppi sbandamenti ritmici ma sempre forte del suo mood oscuro e leggermente duro; il tastierista qui sembra osare meno che nel precedente disco e, per uno che vede nell’uso delle tastiere un importante elemento di valutazione per un genere che si prefigge di essere creativo come il prog, ciò può significare disco meno ispirato; effettivamente lo trovo un gradino sotto il precedente album ma le trovate interessanti ci sono eccome. Un disco che all’inizio magari potrebbe far storcere un po’ il naso e risultare monocorde ma con gli ascolti ci si rende conto che l’essenza dark-prog degli Arena c’è tutta. A portare poi in alto il livello complessivo c’è la suite di 22 minuti “The Legend of Elijah Shade”, la più lunga mai composta dal gruppo, varia sia nei suoni che nelle ritmiche, anche se c’è da dire che forse non ci sono più le vere suite di una volta, ben distinte nei vari movimenti e dall’epicità stratosferica, sembra spesso che si allunghi il minutaggio per sentirsi a tema con la materia prog… però il loro fascino alla fine lo hanno sempre e comunque, fanno figo e penso vada bene così.
Nel complesso un disco che si difende bene nella discografia degli Arena, non li eleva né li ridimensiona, semplicemente fornisce un valido e concreto esempio di neo-prog oscuro e leggermente duro, che sicuramente si è rivelato adatto ad onorare l’estate 2018 difendendosi dalle terribili minacce dei tormentoni estivi dei vari Alvaro Soler, Baby K e compagnia bella e dai ragazzini con gli smartphone da cui esce trap a tutto volume.
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