Avevo da poco iniziato la mia storia d'amore con l'opera quando mi capitò di imbattermi in una celebre trasposizione filmica dell'Elektra di Richard Strauss, datata 1981, con Leonie Rysanek nel drammaticissimo e assai arduo ruolo dell'omonima eroina. Tra l'altro, era la mia prima esperienza con Elektra e, nonostante la convincente, intensa performance della Rysanek, nonostante l'inquietante estetica post-industriale della scenografia, perfetta per le atmosfere di quell'opera, quello che più mi rimase indelebilmente impresso furono questi otto minuti circa, il monologo di Clitemnestra, interpretato da tale Astrid Varnay, 63 anni all'epoca. La potenza elementale della sua performance ebbe un effetto soverchiante su di me, e contribuì a spingermi con ancora più decisione non solo verso Richard Strauss ma, più in generale, verso le meraviglie crepuscolari dell'opera tedesca del primo '900 (Schreker, Korngold, Zemlinsky), ad oggi il mio repertorio preferito in assoluto. In questa sua splendida autobiografia, Astrid Varnay ricorda quella sua Clitemnestra come un'interpretazione esageratamente monodimensionale, che non suggerisce la complessità delle motivazioni, l'umanità e la bellezza sfiorita della regina di Micene, trasformandola in una sorta di animale da preda, quasi in una stereotipata "villain". Riguardandola ora, a più o meno due anni di distanza, capisco perfettamente e, almeno in parte, condivido il giudizio critico di Astrid, ma una Clitemnestra così esasperata era proprio quello che ci voleva per me in quel periodo: esempio per esagerazione, questo è il concetto, e, comunque, per me rimarrà in ogni caso una performance iconica.

Questa autobiografia è stata pubblicata nel 1998, pochi anni dopo la conclusione della lunga e gloriosissima carriera di M.me Varnay, unicamente in inglese e tedesco. Come potete vedere, la copertina è di colore dorato, cosa che si adatta particolarmente bene al libro di gran lunga più costoso che abbia mai comprato (35 Euro netti). Soldi spesi meravigliosamente, dico io; 55 Years in Five Acts: My Life in Opera è una miniera inesauribile di aneddoti e informazioni storiche, di valore inestimabile per chiunque sia interessato a questo mondo e, più in generale, una lettura avvincente, piena di passione e di ironia, per nulla concentrata su dettagli tecnici. Proprio per questo, ritengo che questo libro possa piacere potenzialmente a un pubblico molto più vasto del suo target più ovvio, ovvero melomani e addetti ai lavori. Avventurarsi tra queste pagine non è per nulla diverso dal leggere un bel romanzo che, a mio parere, potrebbe adattarsi benissimo a una potenziale trasposizione filmica.

Astrid Varnay ha avuto una vita estremamente interessante, sia dentro che fuori dal palcoscenico, e per raccontarla non comincia dall'inizio ma dal grande punto di svolta, ovvero il debutto ufficiale su un palcoscenico; e forse nessun altro cantante d'opera può vantare un debutto del genere: al Metropolitan di New York, in Die Walküre, nel ruolo di Sieglinde a fianco di mostri sacri come Lauritz Melchior (Siegmund) e Helen Traubel (Brunnhilde). All'epoca ventitreenne, fu chiamata all'ultimo momento a sostituire l'indisposta Lotte Lehmann, altra stella di primissima grandezza e, nonostante la pressione soverchiante che simili circostanze comporta, Astrid ne uscì vittoriosa. Iniziò così, nella maniera più sfolgorante possibile, la carriera di uno dei più grandi soprani wagneriani del secondo '900, nonchè il mio soprano wagneriano preferito (insieme a Gertrude Grob-Prandl). Ah, quasi dimenticavo: era il sei dicembre del 1941, la vigilia dell'attacco giapponese a Pearl Harbor.

Figlia d'arte (madre soprano di coloratura, padre tenore e successivamente impresario teatrale, ungheresi espatriati durante la Prima Guerra Mondiale), Ibolyka Astrid Maria Varnay nacque a Stoccolma il 25 aprile del 1918 e trascorse la prima infanzia in Svezia, quindi in Norvegia e successivamente in Argentina, prima di approdare a New York, dove iniziò la formazione musicale sotto la guida della madre. Del debutto da sogno abbiamo già parlato e negli anni successivi, fino al 1955, la sua carriera rimase legata al massimo teatro newyorkese e al repertorio wagneriano, cosa che, così racconta lei stessa, le impedì di dedicarsi all'opera italiana, suo primo amore, tanto quanto avrebbe voluto: non ebbe mai occasione di cantare, per esempio, La Forza del Destino e Un Ballo in Maschera, un vero peccato, considerando le sue interpretazioni a dir poco elettrizzanti di "Pace mio Dio" e "Morrò ma prima in grazia". D'altro canto, però, in un paio di occasioni interpretò Amneris in Aida, con nientemeno che Renata Tebaldi nel ruolo della protagonista; cosa che, quando la lessi per la prima volta, mi fece ardentemente desiderare l'invenzione della macchina del tempo.

Wagner (e Elektra) era però lo sbocco più immediato per una voce enorme, scura e fortemente drammatica come la sua, a metà tra soprano e mezzosoprano; trasferitasi in Europa a metà degli anni '50, fu tra i massimi protagonisti della rinascita del "tempio" wagneriano di Bayreuth nel secondo dopoguerra, e in quella fase della sua carriera in suo nome si legò ancora più profondamente a ruoli come Isolde, Brunnhilde, Kundry e Ortrud, i più impervi, i più vocalmente pesanti tra i personaggi femminili di Wagner, e Astrid regala ai suoi lettori dei bellissimi "ritratti" di ognuna di queste eroine, a testimonianza del non comune spessore interpretativo e capacità di caratterizzazione psicologica per cui era universalmente apprezzata. Qualcuno, anche per questo oltre che per le sue già citate caratteristiche vocali, l'ha definita come la Callas wagneriana, un appellativo secondo me perfettamente calzante.

Ma M.me Varnay si dilunga ancora maggiormente nel descrivere alcuni personaggi interpretati nella fase conclusiva della sua carriera, specialmente l'umile Mamma Lucia nella Cavalleria Rusticana di Mascagni e la Kostelnicka in Jenufa di Leos Janacek, personaggio estremamente drammatico e facile da fraintendere; a queste due figure di donne anziane e dimesse, quanto di più lontano dal concetto di "eroina" si possa immaginare, sono dedicati interi, dettagliatissimi capitoli, tra i più interessanti e coinvolgenti dell'intero libro. Questa Astrid Varnay in versione mezzosoprano caratterista è, ovviamente, anche quella di Clitemnestra e di Erodiade, ruolo quasi analogo nella Salome di Strauss/Wilde, tra le altre cose. In questo caso, il ruolo che avrebbe desiderato ma non è mai arrivato è Azucena (Il Trovatore), altro grande rimpianto.

Non mancano di certo aneddoti, spesso molto coloriti e divertenti, su colleghi e addetti ai lavori: altre grandi icone wagneriane come Lauritz Melchior, Wolfgang Windgassen, Hans Hotter e la sua "quasi gemella" Martha Mödl, ma anche Renata Tebaldi, Mario del Monaco, Montserrat Caballè, Josè Carreras e Piero Cappuccilli, tra gli altri. Ovviamente non mancano menzioni a Birgit Nilsson, la più famosa e più registrata dalle case discografiche tra i soprani drammatici/wagneriani di quella generazione d'oro, per cui M.me Varnay spende parole di grande stima e anche qualche (velata ma neppure troppo) bonaria frecciatina. Critiche ben più taglienti vengono riservate a Herbert Von Karajan e, soprattutto, Rudolf Bing, sovrintendente del Metropolitan e figura assai controversa nell'ambiente lirico dell'epoca, senza dimenticare i dannosissimi registi "moderni", e i loro allestimenti strampalati se non apertamente ridicoli e/o volgari, preoccupati più di veicolare il proprio messaggio più o meno intellettuale che di rappresentare le opere nel rispetto del contesto storico in cui sono state concepite.

Purtroppo, di Astrid Varnay rimangono ben poche incisioni "ufficiali" di opere complete da tramandare ai posteri, mentre interpreti senza nemmeno un grammo della sua personalità e spessore artistico hanno lasciato discografie sterminate. Nella mia collezione personale figura solo un meraviglioso Lohengrin "Live in Bayreuth" del 1953 nel ruolo di Ortrud, uno dei sui grandi cavalli di battaglia, con Wolfgang Windgassen (Lohengrin) ed Eleanor Steber (Elsa). Una preziosissima testimonianza dei suoi anni di massimo splendore, della sua voce oscura e maestosa. Così anche questo sontuoso recital datato 1951, quasi un personale greatest hits; a costo di scadere nella retorica, dico che, purtroppo, non credo che esistano o esisteranno un futuro voci simili, interpreti lirici dello spessore di Astrid Varnay. Alla fine dei cinque atti (una Grand Opera, in pratica) della sua autobiografia, chiude con una citazione shakespeariana, dall'Amleto, e anch'io vorrei chiudere nello stesso modo, sia come ulteriore omaggio a questa immensa artista sia perchè il passaggio in questione mi rispecchia perfettamente e ne condivido la scelta.

This above all; to thine owne selfe be true;
And it must follow, as the night the day,
Thou canst not then be false to any man.
Farewell: my blessing season this in thee.

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