Il nuovo progetto dello stakanovista Uwe Schmidt - una settantina[!] circa le sigle con le quali ha pubblicato negli ultimi 25 anni - è quanto di più concettualmente affine alla robotica applicata in musica: elettro-pop finemente solipsista nella sua essenza più profonda, eoni luce più visionario e disturbato degli stessi ultimi vagiti partoriti dai senescenti automi Dusseldorfiani originali.

Volendo fare un raffronto anche con il contemporaneo recente ritorno su disco dell'originale Uomo-Macchina Karl Bartos questo disco suona decisamente più riuscito e spiazzante rispetto alla vagamente imbolsita elettro-riproposizione dell'ex-Man Machine.

All'interno di questo nuovo frastagliato, camaleontico, sinuosamente fruibile agglomerato di algidi suoni sintetici in chiave futurist-Pop il manipolatore di Francoforte evita accuratamente l'elettro-modernariato così come gli eccessi radical-isolazionisti di molte produzioni similari concentrando i propri sforzi verso un chirurgico, ultra-asettico, iper-sfaccettato quadro sonoro surreal/dadaista ricco di soluzioni e incastri ritmico-melodici spesso arditi se non completamente inusitati capaci di sottoporre il vostro scalcagnato impianto audio a un vero e proprio stress-test: quando i diffusori inizieranno a vibrare pericolosamente per via della sollecitazione ottenuta dalle bordate in bassa frequenza di "Riding The Void" capirete ciò che intendo.

Tra una vocoderizzata invettiva contro il Pop imperialista majoritario ("Stop (Imperialist Pop)") e una partecipazione del Prince techno-funky di casa Warp James Lidell resta solo da capire che ci faccia la arcaica rockettara "My generation" di Who-iana memoria letteralmente deturpata da una inestricabile catasta di schegge acuminate e lapislazzuli frattalizzati.

Forse è proprio questo il prototipo di Pop in High Definition che intende Mr. Schmidt.

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