Lui tra i cantanti più di successo degli anni ottanta, pure in Italia.
Un tormento la frequenza di suoi video trasmessi a rotazione continua sull’allora seguitissimo canale musicale televisivo.
Poi pressoché sparito poco tempo dopo, come non fosse mai esistito. Rimosso, ancora oggi. Quando è troppo e quando è poco… non se lo fila più nessuno, da decenni.
Tra i meno bravi e interessanti, comunque. Blue-eyed soul… troppo buoni! Poca voce, pure sfiatatella, a rischio afonia.
Poche idee sue, nei pezzi. Gliele passava il suo produttore/compositore, quando non erano proprio cover.
Aveva il ciuffo giusto, non so, era un buon metro e novanta di ragazzo con un bel musetto, neanche tanto smorfioso, abbastanza se stesso. Se la giocava con Duran e Spandau e Culture Club e la Lauper e altri, ma mi è sempre apparso come il più debole e sovrastimato del lotto.
Però questo suo terzo lavoro (1986) funziona. Sarà perché vi è meno elettronica, perché viene lasciato più spazio ai musicisti accompagnatori che sono di qualità: Pino Palladino al basso, Steve Bolton alla chitarra i più bravi.
Soprattutto, vi sono meno cover, solo due su dieci brani e in generale si tenta di fare pop rock raffinato e “caldo”, lontano dalla freddezza delle batterie elettroniche e dei finti pianetti made in Yamaha, altra croce di quegli anni.
Qui e là vi gorgoglia un gustoso Hammond, particolarmente su “In the Long Run” la mia preferita, oppure abbaia efficacemente una risonante Stratocaster massaggiata colla leva del tremolo, tipo su “Wonderland”: due riuscite pop rock songs, la seconda ha un lungo e coinvolgente crescendo iniziale.
Sono specificatamente legato a quest’opera per una circostanza particolare: per il mio compleanno del 1986 alcuni miei amici avevano organizzato un viaggio tutti insieme fino al Rolling Stone di Milano, dove suonava la Manfred Mann’s Earth Band un gruppo che sapevano quanto mi piacesse. Il concerto si rivelò ideale per i miei gusti: pochissima gente, saremo stati duecento in una sala che ne avrebbe potuto tenere mille, appiccicati ai musicisti sotto il palco ma liberi di muoverci, di sorridere e fare OK ai musicisti, sapendo di essere visti; grande musica poi, grande gruppo. A metà serata salii al bar in fondo alla sala per un drink e ci trovai un gioioso gruppetto di spilungoni stranieri, il più basso Steve Bolton comunque ben sopra l’uno e ottanta, il più alto Pino Palladino due metri e passa. C'era anche Paul Young in mezzo a loro, non cagato neanche di striscio da alcuno dei pochi avventori. C’era pure il produttore Hugh Padgham, quello anche dei Genesis. “Che ci fate in Italia?” chiesi. “Stiamo registrando al Castello di Carimate!” rispose Hugh. A fine concerto li vidi sgattaiolare su di un lato del palco, verso i camerini, per salutare i colleghi. Il fatto era che il tastierista di Young, Matt Irving, era stato pochi anni prima il bassista dei Manfred Mann, ed evidentemente quella sera aveva proposto agli altri di prendersi una pausa dalle registrazioni e andare al concerto del suo ex gruppo.
Disco pertanto registrato tutto in Italia, fra Carimate e Milano, nonché fonte della sopra descritta mia piacevole esperienza, e ricordo. Quattro stelle di affetto.
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