Revenant non può essere spiegato e valutato prescindendo da Birdman. È un film che nasce proprio in antitesi al suo predecessore, a completamento di questo. Iñárritu ha potuto fare Revenant anche perché si è guadagnato credito e rispetto da parte di critica e pubblico, non avrebbe di certo potuto usarlo come biglietto da visita. Il film è bello, ma assume tanti ulteriori significati arrivando dopo un film come Birdman.

Se quello si affidava in primo luogo a una sceneggiatura di altissimo livello, rifinita in ogni minimo particolare, con parole soppesate, questo va nella direzione opposta: Iñárritu prende una storia canonica, prevedibile, grezza, e tenta di nobilitarla quanto più gli è possibile. Il regista non lavora più sui concetti, le sequenze non sono quasi mai foriere di messaggi ulteriori: questo è cinema che lavora alle radici del concetto stesso di fare cinema, cioè mostrare qualcosa di meraviglioso, prima ancora di narrare o argomentare. Per rendere giustizia a questa vocazione primitiva della Settima Arte, il cineasta lavora essenzialmente in tre direzioni.

Cerca di mantenersi più fedele possibile alla realtà: le riprese fatte in luoghi selvaggi, l'assenza di luce artificiale, la fedeltà nei dialoghi a un registro basso o addirittura al comunicare attraverso grugniti. La storia si costruisce da sola, senza tanti orpelli, ma mettendo lo spettatore in uno scenario. Il gusto della visione, al contrario di quello intellettuale di Birdman, è dato dal piacere esperienziale che si proietta sullo spettatore, anche perché si rende conto che attori e troupe hanno vissuto davvero quegli ambienti.

Un secondo modo per nobilitare la materia narrativa è costituito dalla componente più squisitamente estetica del girato. Revenant è un film che mostra tutta la severa bellezza del mondo naturale: anche qui, c'è un’alternanza oppositiva al microcosmo asfittico del teatro di Birdman. Qui si respira la vastità sterminata dei paesaggi, veri protagonisti del film. Gli uomini sono spesso ripresi in campo lungo, perché l'ambiente non deve mai passare in secondo piano. Se in Birdman dominava la società umana, qui domina la natura, con le sue regole severe. E l'uomo infatti è regredito allo stato di animale, egoisticamente concentrato sulla sua sola sopravvivenza. Pensiamo all'eloquente cartello: «Siamo tutti selvaggi». Gli elementi che Iñárritu ha scelto per mantenersi aderente alla realtà, dagli scenari all’illuminazione, gli servono parimenti, con la mediazione del fedele Lubezki, per dare risalto alla bellezza presente nel suo film. Una bellezza selvaggia.

Terzo fattore chiave per la riuscita dell'opera sta più banalmente nel lavoro di regia di Iñárritu. Da questo punto di vista, il livello si è alzato ulteriormente. Piani sequenza complessi si alternano a montaggi più frammentati, i campi lunghi dialogano con i primissimi piani. Il linguaggio è ricchissimo e trasmette la presenza del regista nello scenario, insieme ai suoi attori. Le inquadrature giocano su prospettive dal basso, su movimenti di macchina da un dialogante all'altro, oppure sul posizionare il protagonista in uno spazio vasto, riuscendo a celebrarne la maestosità ma non tralasciando mai la miseria di Hugh Glass. Nei momenti migliori l'occhio della cinepresa è un protagonista aggiuntivo.

DiCaprio e Hardy sono degli ottimi interpreti e danno vita a personaggi convincenti. Leonardo fa davvero di tutto, entra in cadaveri di animali, sta nudo nella neve e striscia per gran parte dell’avventura. Tom fa l'uomo pragmatico e senza scrupoli, John Fitzgerald, che spiega la sua filosofia di vita in un racconto di due minuti, con una metafora assai significativa e arcigna. Forse, in un’opera che non concede quasi niente alla retorica del film di vendetta, l’unica piccola imperfezione sta nella costruzione del passato di Glass/DiCaprio: un po’ insipide le sequenze oniriche in cui si vede la sua famiglia.

Quindi, un film che non ha un messaggio da dare, ma rappresenta uno sforzo estetico e performativo davvero rimarchevole. Birdman era difficile da girare, ma era un film stupendo già sulla carta. Revenant è diverso: è un film che sulla carta può anche sembrare inutile, perché ha i suoi pregi tutti nell'atto collettivo che ne ha permesso la realizzazione. Non è grande nella teoria, ma nella pratica: nelle fatiche degli attori, nella realtà degli scenari, nella forza espressiva dell'atto di filmare, nella luce naturale, nella brutalità della componente ferina dell'animo umano. Ecco, con Revenant il cineasta messicano ha voluto addentrarsi in questa dimensione selvaggia e per farlo ha concepito in primo luogo un film selvaggio, non artificioso, esperienziale, privo di grandi costrutti narrativi oppure orazioni eloquenti, ma nelle poche frasi di rilievo è incisivo e graffiante come non mai. È un film che mugugna e si trascina coperto di ferite e sudiciume, come il suo protagonista: quando poi riesce a parlare, ti inchioda.

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