Lungi da me proporre qui un'esaltazione del fascismo, però la creazione di Cinecittà fortemente voluta da Mussolini negli anni '30 (vide la luce nel 1937, dopo un anno di lavori) aveva un senso logico profondo: contrastare lo strapotere delle grandi major statunitensi (la Warner, la Fox, la Universal). In effetti ogni paese di una certa importanza aveva al proprio interno una casa di produzione capace di aggregare tutte le piccole case di distrubuzione che imperversavano in detto paese: in Germania c'era la Ufa, prima che il regime nazista la saccheggiasse a proprio tornaconto personale. L'Italia no, era ancora divisa in tanti piccoli distributori locali che agivano ognuno nella propria zona di competenza, e il cui unico mezzo pubblicitario erano dei cartelloni attaccati alla bell'e meglio nel centro, e a volte persino in periferia, delle principali città dello stivale.
Il primo film prodotto in Italia risale al 1905, ed è "La presa di Roma" (di cui oggi rimangono frammenti sparsi per un totale di 5 minuti) di Filoteo Alberini. Fu il salto di qualità del cinema italiano, che si spostava dai paesi e dalle fiere e approdava nelle (poche) sale cinematografiche all'epoca disponibili. Secondo il critico e storico Gian Piero Brunetta "un'opera-monumento della storia nazionale, ricostruita in modo da offrire il massimo di verosimiglianza [...] così da servirsi delle immagini dello schermo come di un luogo privilegiato della memoria del Paese". Alberini, massone, non ebbe difficoltà a farsi finanziare dall'Esercito e dal Comitato dei Festeggiamenti per l'anniversario di Porta Pia. Alberini, nato ad Orte, fece proiettare il film a Roma, con una campagna pubblicitaria in cui tappezzò mezza città di manifesti. Fu un successo, ma lo videro solo lì, proprio perché non esisteva alcuna casa di produzione nazionale.
Ancora peggio andò col primo "Pinocchio" della storia del cinema, datato 1911 per la regia di Giulio Antamoro, in arte Gant. Polidor, al secolo Ferdinand Guillaume, il clown più famoso dell'epoca impersonava un Pinocchio stranissimo in cui libertà di narrazione e inventiva artistica lo facevano addirittura finire nel Vecchio West a contatto con indiani e cowboy. Lo produceva la Cines, anch'essa romana, e dunque impossibilitata a portare fuori dai confini cittadini (se non al massimo nei comuni limitrofi) la propria opera. Eppure l'Italia fu la nazione che s'invento l'idea del kolossal e "Cabiria" (1914) di Giovanni Pastrone è probabilmente l'opera italiana (e non solo) più importante del mondo. Non perché durava tre ore e costò una cifra fuori da ogni logica del tempo, nemmeno per l'invenzione della figura di Maciste, e nemmeno ancora per le didascalie a firma Gabriele D'Annunzio, o nemmeno per la prima che si tenne in contemporanea a Milano e Torino il 18 aprile 1914 con il Re Vittorio Emanuele III in prima fila, bensì perchè nacque quello che gli americani chiamavano "Cabiria Mouvement", cioè fino ad allora funzionava così: il regista piazzava la macchina da presa, dava il ciak e gli attori facevano il loro, stop. Pastrone capì che la macchina da presa si poteva muovere, e creò i primi timidi zoom o le prime pionieristiche carrellate: senza Cabiria il cinema sarebbe stato "fermo", invece si mosse. E contagiò la fantasia dei Griffith, degli Ejzenstejn e di tutto l'apparato cinematografico americano, che al movimento della macchina da presa proprio non ci aveva (ancora) pensato.
Prima di Cinecittà, la capitale del cinema italiano, però, non era Roma, bensì, alternativamente, lo erano Torino e Milano. E qui inizia la nostra storia (il preambolo era necessario per inquadrarne il contesto storico). A Milano c'era la Milano Films, nata nel 1909 e cessante le attività nel 1926. Durò poco, nemmeno vent'anni. Molteplici sono le vicissitudini che ruotano intorno a questa coraggiosa casa di produzione ma qui sarebbe troppo lungo esporle tutte, e dunque vi invito, qualora vogliate, a informarvi sulla pagina di Wikipedia (basti solo dire che uno dei fondatori fu un discendente dei Visconti). Oggi, di quel glorioso passato esiste solo un muro in cui sono state apposti dei disegni e delle scritte che l'ignaro passante potrebbe (ma non lo fa praticamente nessuno) leggere mentre aspetta l'autobus. Zona Bovisa, nord di Milano. Il complesso che all'epoca ospitava la Milano Films è diventato un giardinetto cittadino di modeste proporzioni a cui fa da "cornice" un imponente complesso immobiliare, e in uno di questi appartamenti abitano individui loschi e "pericolosi", fra cui io. Che posso, orgogliosamente, dire di abitare laddove una volta sorgeva quel complesso cinematografico che nel 1911 produsse l'unica versione ad oggi impressa su pellicola dell'Inferno di Dante Alighieri.
Non esiste nessun altra versione di tale opera, nessuno che abbia mai osato raccontare l'Inferno di Dante (e nemmeno il Paradiso né tantomeno il Purgatorio) in un film, perché l'impresa appare folle, figuriamoci nel 1911. La regia venne affidata a Francesco Bertolini ed Adolfo Padovan, e fu il primo film italiano in 5 bobine e il primo che ottenne l'iscrizione al Pubblico registro delle opere protette. In realtà una versione dell'Inferno venne girata due anni prima, nel 1909, dalla stessa Milano Films, che dato il buon successo riscosso ampliò l'operazione con il Paradiso e il Purgatorio. Venne addirittura venduto negli Stati Uniti (era più facile esportare all'estero che distribuire in Italia!) e deve la luce grazie all'intuizione del geniale produttore Gustavo Lombardo che impostò la distribuzione non più sulla vendita di copie ma sulla cessione dei diritti. E battè sul tempo persino la piccola Helios Film, con sede a Velletri, che aveva realizzato un'altro Inferno dantesco puntando tutto (o quasi tutto) sulle scene piccanti (siamo nel 1911, il piccante dell'epoca è il casto di oggi) fra cui una scena in veniva inquadrato il seno nudo di Francesca, nel segmento di Paolo e Francesca.
L'opera, che dura 53 minuti, è un capolavoro tecnico e narrativo come pochi al mondo. Un tripudio di sovraimpressioni, di campi medi e lunghi, trucchi alla Meliés. Non siamo ancora nella fase del montaggio alternato di Griffith prima ed Ejzenstejn poi, e il Cabiria-Mouvement era ancora di là da venire, ma alcuni escamotage tecnici lasciarono il pubblico a bocca aperta, come l'ampio comparto scenografico, dato che non si badò davvero a spese, e così, se le scene in interni vennero girate negli stabilimenti della suddetta Milano Films, per gli interni la troupe si spostò sulla Grigna, in Val Camonica, nel bresciano. Le didascalie, fino ad allora utilizzate poco e male (a volte troppo, e comunque male) acquisirono una logica essenziale, e alcune sequenze sono veramente dei capolavori visivi capaci, perché no, di stupire ancora oggi: i lussuriosi trascinati nella bufera; il petto squarciato di Maometto; Bertrando dal Bornio con la testa staccata dal busto. Diffuse, in mezzo mondo, gli stilemi tipici di Meliés aggiungendone ricchezze tecnologiche che nemmeno il grande illusionista francese aveva osato immaginare, e diede all'opera di Dante una connotazione internazionale che forse proprio da qui fece conoscere al mondo intero la Divina Commedia (o meglio, la fece conoscere al popolo). Gli accenti vagamente horror che pervadono l'opera fecero il resto: mai al cinema, così piccolo e così giovane, si era visto tanto grand guignol come nell'opera di Bertolini e Padovan.
Le proiezioni italiane fecero epoca. I pochi cinema presenti sul territorio vennero presi d'assalto da un pubblico un po' incuriosito e un po', va detto, intimorito. Bisogna inoltre ricordare che all'epoca del muto i film non avevano commento musicale su pellicola, ma nella sala cinematografica un pianista (a volte più di uno) commentava, suonando, il film (in Giappone, negli anni '20, s'inventarono pure la presenza in sala di un tizio che narrava a voce la storia così da eliminare le didascalie, l'esempio più famoso, in tal senso, è "Una pagina di follia", 1926, di Teinosuke Kitugasa). A Napoli, in prima fila, ci sono Matilde Serao, Benedetto Croce e Roberto Bracco. Quest'ultimo lo definì persino troppo bello in rapporto ai gusti del pubblico. A Parigi viene proiettato con favore ed entusiasmo, negli Usa forse più freddamente ma con un certo (comunque notevole) interesse.
L'emerita Cineteca di Bologna (nella quale lavorai tra il 2015 e il 2017, perdonatemi l'appendice personale) lo distribuì in DVD con una colonna sonora a firma Tangerine Dream (operazione che spesso la Cineteca ha proposto, si pensi ad esempio al "Ladro di Bagdad", versione muta del 1924, con colonna sonora degli Avion Travel).
Mi dicono dalla regia (così si dice) che pare essere uscita una versione dell'Inferno dantesco nel 2010 con la regia di Boris Acosta, "Dante's Inferno", che però, guarda caso, nei suoi 40 minuti scarsi utilizza spesso intere sequenze tratte dal film del 1911 e utilizza alcune illustrazioni di Gustavo Doré, pittore e incisore francese ottocentesco, da cui Bertolini e Padovan presero spunto a piene mani.
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