Se rivoluzione dovrà essere ogni testa andrà mozzata.

E non si loderanno mai abbastanza le avanguardie, le truppe che per prime si getteranno sui nemici al fronte!

E non si leveranno mai abbastanza in alto le grida di giùbilo, i ruggiti che squarceranno i cieli alla vista dei primi scalpi issati sulle aste come insegne della vittoria!

E se parliamo di rivoluzione e di pionieri, se il campo di battaglia è quello teatrale, allora sarà bene spendere qualche parola su August Strindberg.

Uomo tormentato, studioso vorace e artista instancabile, la stella di Strindberg brillò sin dagli esordi nel firmamento Naturalista che, verso la fine dell'800, orientava le coscienze del pubblico europeo e che era dominato, a livello mainstream, da Zola nel romanzo e da Ibsen nella drammaturgia.

Se Zola era specializzato nelle particolaggiate (e, a tratti, insopportabili) descrizioni ambientali attraverso le quali pretendeva di sviscerare la gamma dei caratteri umani, se i drammi borghesi di Ibsen erano caratterizzati dalla labirintica disposizione degli interni visti come metafora della impenetrabilità delle relazioni sociali, il tratto distintivo nelle opere di Strindberg era la componente autobiografica che aleggiava dovunque e che marchiava le sue pagine al fuoco di una feroce misoginìa.

Si sposò tre volte e furono altrettanti martìri (per lui e per le sue donne): nei capolavori del suo primo periodo, "Il Padre" e "La Signorina Julie", si lasciava spesso andare a violentissime invettive antifemministe espresse entro le pareti del rapporto uomo-donna, nelle intercapedini delle apparenze. Attacchi furibondi che non facevano prigionieri e che non trovavano, sia per linguaggio che per contenuto, nessuna pietra di paragone negli autori dell'epoca.

Strindberg era un'anima straripante: per nessuna moglie ha mai potuto soffocare la veemenza delle sue passioni, per nessun Moloch Naturalista ha mai potuto sacrificare il suo multiforme ingegno.

E poi, nel 1902, scrisse il dramma "Il Sogno". Semplicemente la pietra angolare del teatro moderno.

Che questo testo si configurasse come un'opera rivoluzionaria (anche se la prima rottura sostanziale con le convenzioni dell'epoca si era avuta qualche anno prima con l' "Ubu Re" di Jarry), uno stravolgimento copernicano nello stagnante universo teatrale dell'epoca, Strindberg ne era perfettamente conscio.

Scrive nella prefazione che presenta il lavoro: "Tutto può avvenire, tutto è possibile e probabile. Tempo e spazio non esistono; su una base minima di realtà, l'immaginazione disegna motivi nuovi: un misto di ricordi, esperienze, invenzioni, assurdità e improvvisazioni."

Una vera e propria dichiarazione di guerra all'ortodossìa Naturalista che, più che un sogno, presentiva l'incubo della sua fine.

Nel dramma i molti personaggi appaiono e scompaiono, dimenticano di aver interagito poco prima, si ripresentano improvvisamente con stati d'animo e intenzioni completamente differenti, sfumano sulla scena o la riempiono, si amano o si odiano, sono e non sono. E tutto questo con salti logici audaci, soluzioni impreviste, cambi di scena improvvisi.

Protagonista è la figlia di Indra (oscuro dio induista della folgore, delle piogge e della magia); delicata come Ofelia e generosa come Miranda è lei che, nel prologo, decide di avventurarsi sulla Terra per conoscere la vita umana, di cui il sogno è la metafora. A metà strada tra Gesù Cristo (chiaro è il suo intento salvifico e abbondanti sono i riferimenti biblici) e Dante (con la graduale presa di coscienza delle miserie dei dannati terreni) nessun apostolo la segue e nessun Virgilio la guida veramente nel suo viaggio, tutto è provvisorio e in dissolvenza.

Molto importanti nel dramma sono le accuratissime note di regia che Strindberg inserì per la scenografia (continuamente riplasmata e rivoltata), per l'illuminazione (con un continuo gioco e succedersi di luci-piene, mezze-luci e buio) e per la musica (che amplifica l'effetto intimista delle scene più rarefatte): lungi da essere solo dei meri orpelli didascalici, questi tre elementi costituiscono veri e propri personaggi disincarnati.

Non solo, se consideriamo il gioco di rimandi e variazioni nelle azioni e nelle parole dei personaggi, i leitmotiv che crescono, si rincorrono e riaffiorano in continuazione, l'ossessivo alternarsi tra dilatazioni e concentrazioni ritmiche, si può notare come la struttura stessa de "Il Sogno" abbia l'andamento e lo sviluppo di una sinfonia che si chiuda ad anello in cui tutti i motivi convergono per poi spegnersi nell'ascesi finale.

"Benvenuti nel futuro!" sembrava voler dire Strindberg ai suoi contemporanei. E aveva ragione.

Perché non solo la quieta disperazione a cui portano tutte le piccole routines dell'esistenza, tanto dibattuta in Beckett, è quì anticipata e sviscerata da Strindberg, ma persino la vana attesa di Godot trova un importante precedente in quella del personaggio dell'ufficiale per la sua fidanzata che mai arriva.

Perché il linguaggio straniante che permea tutta la pièce sarà ripreso decenni più tardi da Brecht (seppur in un'accezione didattica).

Perché la concezione dell'assurdità dell'esistenza che sarà la colonna vertebrale dell'opera di Ionesco trova, nel dramma di Strindberg, una gigantesca fonte d'ispirazione.

Insomma, con "Il Sogno" il dado era tratto, la rivoluzione iniziata, le prime teste mozzate.

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