Nella calura metropolitana di questo agosto in quel di Milano, per evitare di restare solo a casa in mutande e seduto sul divano proprio come il protagonista di "Disperato erotico stomp" di Dalla, mi sono fiondato in un cinema ove si programmava questo film dal titolo "Fremont". Forse sarò rimasto incuriosito dalla locandina del film in bianco e nero, forse il nome del regista iraniano emigrato in Gran Bretagna mi ha stimolato. Fatto sta che posso dire di essere incappato in un film che può catturare l'attenzione di uno spettatore amante di certo cinema dallo stile felpato e misurato, in linea con certi autori come Jarmusch e Kaurismaki. Registi, quindi, attenti alle esistenze di persone molto comuni, che cercano di barcamenarsi nel flusso della Storia (proprio quella scritta con la maiuscola), trovando un barlume di luce in fondo al tunnel.

Qui la protagonista è una certa Donya (interpretata da un' ottima esordiente Anaita Wali Zaida) , una giovane donna afghana che, prima del ritorno al potere dei talebani a Kabul, svolgeva il ruolo di interprete presso una base militare statunitense. Successo quello che è ben noto, riesce a riparare negli Usa e precisamente in un piccolo centro urbano di nome Fremont, vicino a San Francisco e ove la maggior parte degli abitanti è costituita da profughi afghani.

Per guadagnarsi da vivere la donna lavora in qualità di autrice di quei messaggi presenti sui biglietti della fortuna disponibili nei ristoranti cinesi. Non proprio il massimo per una donna laureata in Afghanistan e fuggita all'estero. Si aggiunga che i suoi rapporti con i connazionali non sono particolarmente buoni e comunque, se si vive e lavora all'estero, la conoscenza della lingua locale non basta a rendere tutto facile. Donya, quindi, prova sulla propria pelle la difficoltà ad inserirsi in un nuovo ambiente e questa condizione le causa infelicità e anche insonnia.

Segue un ciclo di sedute psicoterapeutiche per rimediare al suo malessere esistenziale ma è solo nel momento in cui compone un messaggio di ricerca contatto per amicizia (con tanto di numero del suo cellulare) su uno di quei biglietti della fortuna cinesi che si avvia una serie di microeventi tali da aprire orizzonti inediti. Basti tener presente che l'officina di un meccanico può essere provvidenziale per ovviare alle noie del motore dell'auto di Donya, oltre a dispiegarle nuove possibilità nella propria vita.

Senza offrire altri cenni allo svolgimento dell'odissea della protagonista il film, girato in un luminoso bianco e nero e dal ritmo un po' lento pur senza annoiare, riesce a rappresentare la difficile vita di chi, per cause di forza maggiore, deve emigrare e collocarsi in un ambiente straniero, pur conoscendo la lingua del luogo. Ci si sente comunque sotto costante esame e, lo cantavano anche i Doors, "people are strange when you are a stranger".

Ma direi anche che la trama di"Fremont " mi ha confermato come, in fondo, le vicissitudini di Donya siano in generale la dimostrazione della costante difficoltà nella vita di ciascuno di noi, straniero o indigeno che sia. Una continua ricerca di condizioni di vita accettabili in una realtà sostanzialmente assurda e irrazionale. Proprio a smentire certa filosofia idealistica intrisa di retorica secondo cui "la realtà è razionale e la razionalità è reale". Ma quando mai?

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