E poi dicono che quei riassunti anonimi, appiccicati sulle pareti per lenire l‘attesa della fila, non servano a niente. Ero entrato deciso, quasi certo, di trascorrere due ore adrenaliniche, e probabilmente scontate, lasciandomi andare all’avvolgente trama della spy story “Fair Game”. L’inaspettato scorrere di quelle 15 righe mi ha spinto a cambiare idea; proprio davanti la cassa. Tocca a me ormai. Uomini di Dio, dico. Una volta entrato mi guardo attorno nel buio della sala: un giovane cerbiatto in mezzo ad uno sparuto gruppo di anziani cervi.

Non so che qualche parola in francese, ma se non erro la traduzione corretta di "Des Hommes et Des Deux" non dovrebbe essere “Uomini di Dio”, ma “Uomini e dei“. Il primo unisce le due parole, il secondo le distingue. E non è poca cosa.

Ve lo dico subito a fugar ogni dubbio e perché no, per incuriosirvi anche. 5 stelle.

Un film di rara intensità e forza. Stupisce in positivo l’assenza di retorica nell‘affrontare un tema che, al contrario, si sarebbe prestato molto a pennellate di miele e sviolinate altisonanti. Non pensiate tuttavia che sia una visione rilassante: al contrario è molto impegnativa per una pellicola complessivamente lenta, pregna di silenzi ed austerità. Non siamo al cospetto di una sorta de “Il Grande Silenzio”, ma è una visione comunque da soppesare onde evitare di imbattersi in due ore di supplizio.

L’ambientazione del lungometraggio si dipana in uno sperduto monastero in Algeria abitato da otto monaci francesi. Religione cattolica ed islamica convivono armoniosamente in un paesino composto da un pugno di tranquilli abitanti. La telecamera entra in questo luogo di culto nel quale la vita è lenta: fatta di campi da arare, legna da raccogliere e successivamente da ardere, miele e prodotti della terra da vendere al mercato, preghiere, canti gregoriani, studi delle letture e visite mediche e cure per i malati. Equilibrio.

Una situazione di calma ed armonia apparente che diventa progressivamente sempre più instabile con l'avvicinarsi dei ribelli integralisti. Quando giungono nei pressi del monastero è vento forte quello che sconquassa i religiosi. La crisi di fede che attanaglia alcuni di loro viene meravigliosamente resa e così facendo coraggio e paura si mescolano tra i monaci indecisi sul da farsi. Piace che i protagonisti non siano stati dipinti come eroi, ma al contrario persone normali che di fronte al pericolo si dimostrano fragili, spiazzate, timorose e titubanti. In una parola, umane.

Di scene memorabili ce ne sono diverse. Come dicevo in precedenza i silenzi sono molti e non ritengo sia un caso che le due che vi voglio descrivere prima di chiudere siano quasi mute.

La melodia del Lago dei Cigni. Note che, se non avete mai ascoltato, vi consiglio vivamente di fare vostre. Musica capace di rappresentare, meglio di un monologo del miglior Al Pacino, i contrastati stati d’animo dei protagonisti. Sui loro volti un’espressività fuori dall’ordinario mentre la telecamera scorre lenta rimbalzando tra le rughe, seguendo i continui crescendo e rallentamenti dello spartito.
La neve scende rendendo quasi surreale il paesaggio fatto di palme imbiancate. Una fila lunga arranca, inciampa continuamente nell’insolita coltre che copre la collina. La fila eterogenea si addentra progressivamente nella nebbia. Senza retorica alcuna, mentre l’inquadratura si ferma, sparisce lasciando così spazio ai titoli di coda.

Tra gli attori svetta la prestazione di Padre Luc (Michael Lonsdale), ma nel complesso è un cast di valore quello che riesce a interpretare una storia vera del recente passato. Xavier Beauvois ha dato alla luce una pellicola capace di offrire vari spunti di riflessione ed immagini destinate a rimanere nel tempo.

Un’opera ostica e amara caldamente consigliata.

ilfreddo

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