Ci sono film la cui lavorazione è più interessante (quasi) del risultato finale, su tutti “Il mago di Oz” (1939) che avrebbe bisogno di essere raccontato per filo e per segno date le clamorose vicende di produzione a cui andò incontro. E lo stesso vale per “Dumbo” (1941), che è uno dei 4/5 capolavori della Disney di tutti i tempi, non a caso ben incastonato nella cosiddetta Golden Age della celebre casa di animazione.
“Nella primavera del 1941, sotto la pressione della Bank of America e degli azionisti, la Walt Disney Productions accettò di ridurre i propri costi di produzione fino a circa 15 mila dollari alla settimana. Secondo le parole di Walt Disney, ciò voleva dire contenere le spese per i nuovi film a circa 700 mila dollari, cioè un terzo di quelle di Pinocchio e Fantasia. Dal momento che i costi di lavorazione formavano fino all'85-90% delle spese totali della Disney, stringere ulteriormente la cinghia significava dover licenziare oltre metà del personale” (Michael Barrier, “Walt Disney – Uomo sognatore e genio”)
E così la Disney incorse nel primo sciopero della sua storia, sciopero portato avanti dagli animatori e dagli impiegati su proposta di Art Babbitt, un pezzo grosso in casa Disney. Il quale venne licenziato su due piedi, nonostante i fedelissimi di Walt, coloro che lo sciopero lo scansarono, tra cui Gunther Lessing, emisero la sentenza (secondo loro) definitiva: “L'assunzione alla Disney era più o meno come avere la pensione assicurata […] dato che era pressochè impossibile che Walt licenziasse chiunque possedesse un minimo potenziale di talento”. Non fu così, evidentemente.
Lo sciopero funestò la lavorazione di “Dumbo” che doveva, nelle intenzioni di Walt, essere un film a basso (anzi, bassissimo) costo, dato che tolto il clamoroso successo di “Biancaneve e i sette nani” (1937), i due successivi film, “Pinocchio” e, soprattutto, “Fantasia”, furono un fiasco colossale (il primo costò 2.289.247 dollari e ne incassò 2 milioni; il secondo costò 85 000 dollari e ne portò a casa la metà) a causa dell'uscita, va detto disgraziatissima, datata 1940, cioè durante lo scoppio della seconda Guerra Mondiale in Europa, continente in cui non si poterono distribuire i suddetti film, e dunque venne a mancare una fondamentale fetta di mercato, senza dimenticare che stessa sorte ebbe la distribuzione in Giappone.
Bisognava dunque contenere i costi, e “Dumbo” questo è, un piccolo film di 68 minuti, a malapena considerabile come lungometraggio, con fondali minimi, animazioni spesso (ben) riciclate, una cura nel disegno un po' meno dettagliata e, non accadrà spesso, una storia che si compie in epoca moderna, non più vecchi castelli e principi a far da salvatori, bensì un film che stava dentro, a pieno, nel 1941. Viste le condizioni di lavorazione, il risultato appare, ancora oggi, miracoloso. Come ebbe a dire lo stesso Walt, “[...] Dumbo è la cosa più spontanea che abbiamo mai fatto”.
“[...] Lo studio Disney acquistò il nome e la storia di base, con tutta probabilità quando il libro era ancora allo stadio di manoscritto. Era una delle decine di idee comprate in esclusiva dallo studio fra il 1938 e il 1939, dopo che il successo di Biancaneve aveva reso disponibile sia il denaro sia l'incentivo ad acquisire storie sfruttabili” (Michael Barrier)
L'idea sarebbe, almeno all'inizio, quella di un cortometraggio, dato che il libretto da cui l'opera sarebbe stata tratta è minimo e contiene moltissime figure e pochissime parole. Trattasi di un roll-a book, una invenzione dell'epoca, era, in pratica, una scatoletta in cui veniva posto una specie di papello illustrato che raccontava, in immagini, una storia. Un giochino per bambini che ebbe fortuna modesta e di cui Dumbo ne è l'esempio più celebre.
Disney lasciò, nella creazione della trama e dei personaggi, ampio spazio ai propri animatori (o almeno quelli che non avevano scioperato) e soprattutto lasciò mano libera a Ben Sharpsteen, un nome importante nell'animazione disneyana degli anni Quaranta e Cinquanta.
Il risultato fu la creazione di un film immortale, un capolavoro destinato a segnare innumerevoli generazioni (tra cui Tim Burton che ne realizzerà un discutibile remake). La leggerezza e il mix di risate e lacrime (è forse uno dei film più scioccanti della Disney se visto da bambino) è, sotto ogni punto di vista, insuperabile. La storia del piccolo elefantino bistrattato da tutti a causa delle sue enormi orecchie, l'abbandono dalla madre e l'amicizia con il topolino Timotéo sono figure, e momenti, entrati di diritto nella storia del cinema. Visivamente contiene alcune sequenze di eccezionale portata: si citi quella della costruzione del circo con gli elefanti impegnati a montare il tendone, e quella celebre dei pink elephantes che anticipa, di almeno 25 anni, la beat generation e la controcultura post-'68, con alcune implicazioni che, forse, ai più saranno sfuggite. Infatti, vedere gli elefanti rosa, in Usa, significa essere ubriachi e un bel libro dal titolo “Walt Disney, The Dark Side Of The Dumbo” ne racconta, in modo maniacale, tutti gli aspetti controversi. Un''opera che, pochi anni fa, qualcuno bollò come razzista, colpa dei corvi neri che al suono di “Ne ho viste cose da raccontar, giammai gli elefanti volar” vennero visti come uno stereotipo gretto e sorpassato colpa anche del fatto che il capo della banda di pennuti si chiami Jim Crow, formula razzista per indicare i neri. Va, ovviamente, tutto collocato nel suo giusto tempo, era il 1941!
Il film andò benissimo e incassò molto, le critiche furono unanimi. La recensione del Time del 29 dicembre 1941 piacque però molto poco a Walt, che leggendola vide che venivano apprezzate le innovazioni apportate da animatori come Huemer, Grant e Bill Tytla. Nessun accenno a Walt, il quale, seccato, stando ai ricordi dello stesso Huemer, disse: “Diamine, sembra che in questo film io non abbia fatto niente”.
Walt, giusto dirlo, lavorò col contagocce alla realizzazione definitiva (bozzetti, animazioni) e non fu sua l'idea di osservare alcuni elefanti dal vivo in modo da riprodurne meticolosamente i movimenti (cosa che poi, soprattutto in tempi più recenti, diverrà consuetudine negli studios della Disney), ma ebbe l'idea originale nell'acquistare i diritti del roll-a book e diresse, come un direttore d'orchestra, l'intero reparto d'animazione.
“Misurare il contributo di Disney a Dumbo è più difficile del solito perchè più scarso del solito è il materiale documentativo sulla lavorazione del film. Sebbene l'agenda da tavolo di Walt segnali che egli partecipò nel 1940 a decine di riunioni su Dumbo, nessuno degli incontri fu trascritto. Nel clima finanziario sempre più duro […] la prestazione di una stenografa era un lusso sacrificabile. In Dumbo vi sono peraltro numerosi indizi i quali mostrano che anche altre mani giocarono un ruolo più sostanziale del consueto nel far prendere forma al film. A dirigere Dumbo fu Ben Sharpsteen e nella sua economia e chiarezza Dumbo ricorda il meglio dei cartoon brevi […] che Sharpsteen aveva diretti per la Disney prima che dirigesse parte di Biancaneve e che supervisionasse Pinocchio” (Michael Barrier)
Infine, un appunto. Le relazioni tra Disney e i dittatori europei Hitler e Mussolini erano note, ci sono molti libri in merito, e si sa che il Duce amava molto “Biancaneve e i sette nani”, le strisce a fumetti targate Disney e che, nel 1940, a guerra in corso, ma non ancora degenerata, almeno in Italia, a Villa Torlonia, dove soggiornava e dove almeno un paio di volte ricevette Walt Disney in persona, si fece proiettare “Fantasia”. Walt era, solidamente, un uomo d'affari, il suo unico scopo era che i suoi film venissero distribuiti in più luoghi possibili, e se questo comportava fare affari con dittatori di ogni estrazione politica egli, a torto o a ragione, era solito sporcarsi le mani. Eppure, in pieno 1941, con il nazismo ancora ben saldo e la disfatta vicina ma ancora non in corso, con i campi di concentramento, l'Olocausto e la caccia al diverso, “Dumbo” appariva come un film inclusivo, in cui un povero elefante con una evidente malformazione fisica, emarginato e canzonato, trovava, grazie ad alcuni amici e, soprattutto, alla propria forza interiore, la voglia di reagire e riscattarsi (certo, c'è la piuma magica, che arriva sul finale, ma è un giustificatissimo escamotage narrativo) e dunque quanto di più lontano dal nazismo (soprattutto) e dal fascismo potesse esserci. Perchè, come dicevo sopra, ogni cosa va soppesata e contestualizzata. Fosse anche un semplice (semplice?) cartoon.
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