La sirena di Norwich.
Ulisse lo sapeva, ci sono voci capaci di catturarti l'anima e non restituirtela più, voci capaci di farti perdere freni e inibizioni. A Beth Orton è difficile resistere, la sua voce ha qualcosa di chimico nelle note, è come una lieve e impercettibile corrente che ti porta senza accorgertene alla deriva.
Dopo aver incantato tutto il mondo della dancefloor diventando la musa dei fratelli Ed e Tom (Chemical Brothers), la esile Beth giunta al terzo album, ci delizia ancora una volta con un mix di tenero folk meravigliosamente accompagnato da accennate sperimentazioni elettroniche.
Il passaggio alla EMI aveva spaventato un po' tutti, convinti che la regina dell'underground, uscendo allo scoperto avrebbe perso la sua forza magnetica,
invece dopo aver scelto accuratamente i suoi compagni di viaggio (Ryan Adams, William Orbit, Ben Watt), Beth è ancora lì sul suo scoglio ad ammaliarci come la prima volta in cui le abbiamo dato libero accesso alle nostre emozioni più profonde.
"Sometimes, sometimes, i see much more than is good for me" già con "Paris Train", la prima traccia, Beth comincia a vibrare a livelli difficili da incanalare, si cerca una via d'uscita a tanta grazia, ma è gia lì che ci chiama "Save my soul i'll save some for you...", con "Concrete Sky" cominciamo a cedere, ad andare alla deriva.
Fra ritmi che alternano accenni di breakbeat e sofferenze folk, Beth comincia a prenderci per mano, non saremo più noi a decidere dove andare, ci guiderà lei nei percorsi più tristi e tormentati ("This One's Gonna Bruise") e nelle passeggiate mattutine ("Thinkin' About Tomorrow").
Finisce il nostro viaggio e ci si stupisce che lei è ancora lì, vicino a noi, non ci ha mai lasciato soli durante tutto il cammino.
A quel punto capiamo che saremo noi a non abbandonare mai la nostra sirena.

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