Via, via dagli uomini e dalle città

Verso il bosco selvatico e le dune

Alla silenziosa selvatichezza

Dove l’anima non deve reprimere

La sua musica per timore che non ne trovi

Un’eco nella mente degli altri

Dove il tocco dell’arte di natura

Armonizza cuore a cuore.

[Percy Bysshe Shelley]

Cosa accomuna Jesus and Mary Chain, Primal Scream, My Bloody Valentine, Slowdive, Teenage Fanclub, Boo Radleys, Saint Etienne e Oasis? Alan McGee e la Creation. Se lo scozzese ha l’indubbio merito di aver rischiato il fallimento per produrre “Loveless”, il capolavoro dello shoegaze, andrebbe altresì rivalutato in quanto ha saputo rivelarsi (e altrettanto nascondersi) come musicista di talento e come compositore d’inattesa sensibilità.

Già a Glasgow avava fatto parte degli oscuri Laughing Apple, per poi trasferirsi a Londra, dove fondava la sua label e il suo nuovo gruppo, i Biff Bang Pow!; entrambi i nomi omaggiano i suoi venerati Creation del Middlesex. I BBF, forti della sinergia o idiosincrasia tra il pop chitarristico degli anni 60 e una psichedelia leggera e trasognante, declinavano a loro modo l’indie pop o twee pop (o “shambling”) tanto ben epigrammato nella celeberrima cassetta-compilation “C86” di NME.

Le influenze della band di McGee e di Dick Green, suo socio anche in affari, sono i Television Personalities, i Byrds, i Love, i Creation e i The Jam. Il loro sound si rispecchia parzialmente su quello dei Big Star più crepuscolari, ma con una ritmica più sinuosa; assomiglia a quello dei Felt, ma sfuggendo all’afflato post punk; prefigura certi paesaggi che i My Bloody Valentines sommergeranno però di feedback trasfigurandone completamente l’impressione bucolica. Col senno di poi, possiamo constatare le affinità con gli Slowdive dell’esordio e, più tardi, coi primi Belle And Sebastian.

Il duo Biff Bang Pow!, nato nel 1983, viene di volta in volta affiancato da validi musicisti e collaboratori. Qui, dopo un esordio piuttosto estemporaneo, i.e. “Pass The Paintbrush, Honey”, spiccano il tastierista Ed Ball (dei Television Personalities) e il chitarrista Andrew Innes (presto Primal Scream).

Con questo sorprendete “The Girl Who Run to the Beat Hotel”, che la Creation stampa nel 1987, si va a sfiorare il capolavoro. L’opera, di impianto acustico con intrecci strumentali eleganti, offre un suono alternativo, indie pop/jangle pop, visionario, vagamente malinconico e iper-sognante.

La levità delle trame armoniche e l’esilità stessa delle melodie procedono spedite su ritmi flessuosi, non invasivi, né artificiosi: luci e nebbie a render ancora più incerte o scure le visioni che propiziano, che ti accarezzano, ti prendono per mano e non si sa se ti accompagnino nell’Eden o nella banalità del quotidiano. I timbri strumentali hanno tutti un loro carattere, arcigno nella leggerezza, passionale ma misurato negli slanci.

Ci attraversano così languori non troppo sommersi, inclini al folk, con una cura sonora non eccessiva né sommaria, ma quasi ingenua, incredibilmente spontanea, dove gli 80 si immergono nei 60 per uscire completamente dal tempo, con una grazia immane.

Un disco perfetto, incantevole. Dieci pezzi tutti belli e soli 29 minuti: nella prima facciata si disegna un canone estetico, nella seconda lo si allarga e sfuma, per uscire di prospettiva nel finale, con un colpo a sorpresa. L’ordine dei brani è una rivelazione, risulta così un valore aggiunto.

Le tastiere danno profondità alle trame esili e al cantato fragile in "Someone Stole My Wheels" e in "She Never Understood", dove anche la batteria è discreta protagonista.

Se "If I Die", ha il sapore di certe cavalcate chitarristiche dei REM, "She Shivers Inside" è una ballata alla Jesus and Mary Chain, mentre "He Don't Need That Girl" è altra materia per gli appunti di Stuart Murdoch e di Isobel Campbell. "

The Beat Hotel" è tutta gocce acustiche che salgono su un vetro umido e appannato.

"Love's Going Out Of Fashion" è bellissima, con Mc Gee che sembra sforzarsi di imitare Robert Smith (“Kiss Me Kiss Me Kiss Me” è coevo) sopra il jangling della chitarra, il basso rotolante e l’armonica a bocca alla Housemartins. «Il modo in cui lei guarda, il modo in cui lei parla è pura emozione/ ... Ma è solo confusione che l'amore crea/ “L'amore è fuori moda” ho detto io».

"The Happiest Girl In The World" è pura poesia spoglia e disadorna, raffinatezza retrò col piano jazzato e con la voce affabile di Christine Wanless che, coi suoi bei vocalizzi, ricorda il tema morriconiano di “Le foto proibite di una signora per bene”.

A chiudere due brani estrosi. "Five Minutes In The Life Of Greenwood Goulding" ha una struttura sfuggente ed elegiaca, con voci alla rovescia, canto soffuso in sottofondo, passaggi di strumenti incidentali, dissolvenze improvvise e reiterate. Alla fine sopraggiunge "The Whole World Is Turning Brouchard!" che è un solido e guizzante pezzo surf rock, dalla metà inzuppato di tastiere. Fuoriesce dal mood dell’LP, dalla sua caratteristica introversione, concludendo un percorso sommesso ma intenso, pacato ma ricco di pathos.

Giunti fino a qui, ci ritroviamo senza malinconia, senza enfasi edonistica, senza fughe lisergiche, senza distruttività.

Solo il piacere di far musica, carpendo qualcosa dell’animo umano, avvinti alle fatiche quotidiane, portandone tutto il peso e tutto il suono.

I Biff Bang Pow! chiudernno i battenti nel 1991, dopo una manciata di album, raccolte comprese, tutti belli e di mestiere, ma non più così fatati.

“The Girl Who Run to the Beat Hotel” è album che andrebbe ascoltato, magari a occhi chiusi, perché può armonizzare cuore a cuore.

Carico i commenti... con calma